lunedì 23 novembre 2015

UNO SHYLOCK TUTTO UNGHERESE IN ITALIA:LA VICENDA DI UN EBREO VITTIMA DEL SUO PERSONAGGIO

György Hunyadkürti a Napoli
“In cosa differisce questa sera dalle altre sere?” chiede il membro più giovane della famiglia nella sera del seder, la cena in cui gli ebrei celebrando la Pasqua rievocano le persecuzioni del faraone e l’inizio dell’esodo dall’Egitto. La triste e amara attualità di questa domanda rivive in una delle battute di Tubal. Tubal è il protagonista di Shylock, lo spettacolo ideato sotto forma di monologo dall’attore e scrittore britannico Gareth Armstrong che è andato in scena in diverse città italiane nella prima decade di novembre. A portare sul palcoscenico questo monodramma è stata la compagnia ungherese del teatro Csiky Gergely di Kaposvár per la regia di Katalyn Kőváry. Nei panni di Tubal un’impeccabile György Hunyadkürti attore che l’Ungheria ha scoperto forse troppo tardi e che da un po’ di anni sta collezionando importanti riconoscimenti individuali. La tournée italiana è una definitiva consacrazione della sua carriera. Lo abbiamo conosciuto a Napoli per la prima nazionale di Shylock, fortemente voluto nel capoluogo partenopeo dall’Associazione culturale Maria d’Ungheria Regina di Napoli. Introverso, taciturno, schivo all’apparenza, dimostra nell’interpretazione un impeto, una profondità e una presa sul pubblico considerevoli, inattesi se si considera che il monodramma viene recitato in ungherese. Hunyadkürti è come lo ha descritto di recente la stampa magiara ovvero „uno che lavora sotto i riflettori ma che non vive sotto riflettori”. Dei premi ricevuti sembra disinteressarsi. „Sono del gruppo non miei” ribatte quasi infastidito al Consolato d’Ungheria a Napoli in conferenza stampa. „Tutti quelli che sono dietro alla realizzazione di un’opera sono importanti. Tutti gli elementi di una missione, anche gli spettatori”. 

Ringrazia tutti Hunyadkürti, anche quelli che “pur essendo in loro potere farlo, non hanno ostacolato la riuscita dello spettacolo”. Ad una domanda sullo stato dei rapporti tra il governo e la cultura in Ungheria risponde: “L’intellettuale deve essere un partner dialogante del potere. Cultura e politica abbiano sempre modo di conversare senza mai considerarsi né nemici né lecchini”. Ironia da vendere, saggio e lapidario nell’eloquio, quasi provato dal fisico, Hunyadkürti è perfetto per il suo personaggio: lui è Tubal. Lui è “un giudeo assai ricco” come viene presentato ne “Il mercante di Venezia” di Shakespeare di cui è praticamente solo una comparsa. Un ruolo minore, una sola scena la sua, sole otto battute scambiate con Shylock di cui è “amico, il suo migliore amico, l’unico amico”. Ma adesso è lui il protagonista, ha campo libero. Ora ha tutto il tempo per essere la voce narrante che fa conoscere a tutti il vero Shylock, i suoi limiti, le sue debolezze, la sua testardaggine, il dramma personale di una figura nata nella commedia shakespeariana anche per scatenare l’irrisione dello spettatore. Insieme a Shylock, ebreo dedito al prestito del denaro, rivive nel racconto appassionato di Tubal anche il contesto storico e geografico. La ricca Venezia crocevia del commercio internazionale dell’epoca. Multiculturale e tollerante, anche verso gli ebrei seppure fossero confinati in una zona ben definita e isolata della città: il ghetto. Racconta e spiega Tubal. Le otto righe della sua scena con Shylock sono il pretesto per viaggiare nel tempo.
 
Conferenza stampa di Hunyadkürti al Consolato Onorario d'Ungheria a Napoli

Tutta la trama della commedia di Shakespeare appare quasi secondaria, sicuramente parallela  allo sviluppo di un’altra vicenda, l’antisemitismo descritto attraverso aneddoti, storia e leggenda.  Se come ricorda Tubal, nei teatri “il pubblico godeva se poteva deriderci”, il suo pubblico adesso sorride un po’ meno e riflette di più. Allora si capisce che Hitler non è il primo uomo di stato ad aver praticato una “soluzione finale” come rimedio alla questione ebraica. Ci ha pensato Eduardo I sei secoli prima decretando l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra. Colpiti dalla legge, colpiti dalla spada. Nel 1190 tutti i giudei rifugiatisi nel castello di York vengono massacrati, anche quelli cui era stata promessa misericordia in caso di conversione al cattolicesimo. A Tubal, a Shylock  e ad altri ebrei come loro va meglio. Vivono e fanno affari con i cristiani, con tutti. Sono integrati nell’economia del loro tempo. Sono presenti e pure riconoscibili. Camminare nella Venezia del XVI secolo infatti è un po’ come farlo nella Germania nazista. Il pezzo di stoffa che serve a identificarli in pubblico è un contrassegno obbligatorio disposto dal Concilio lateranense di Innocenzo III. L’Europa cristiana distingue e marchia chi di fronte a Pilato ha scelto a gran voce Barabba. L’ebreo è condannato a non sentirsi mai legato al posto in cui risiede. L’ebreo non appartiene a nessun luogo. E’ l’ebreo errante. “Io me ne andrò da qui e troverò riposo, ma anche tu andrai via e non potrai avere riposo finchè io non sarò tornato”. La leggenda mette la maledizione proprio in bocca a Gesù quando sulla via della croce si vede negato il ristoro da uno sprezzante calzolaio di nome Assuero.

György Hunyadkürti a Napoli

Grazie a questi elementi della narrazione di Tubal tutto è più chiaro. Il risentimento, la diffidenza, il dispregio, in una parola l’odio che Shylock porta nei confronti del cristiano Antonio, che presta denaro senza applicare tassi d’interesse, va oltre la semplice disistima professionale. Shylock si ribella al suo stesso personaggio. E’ prigioniero del suo stesso ruolo. Un prototipo classico. L’ebreo, usuraio, malvagio per definizione, che può essere solo malvisto dalle platee. Shylock deve rispettare questo copione. Di conseguenza giudica la bontà di una persona in base alla sua solvibilità, esige una libbra della carne del suo debitore come pegno per il suo prestito e tiene più ai suoi averi della sua stessa figlia. Tubal sa tutto questo e prova a redimere l’amico di fronte allo spettatore anche quando al suo processo la stessa giustizia che lo vuole parte lesa lo trasforma in carnefice e degno solo della grazia che gli eviterebbe una sicura condanna a morte. Shylock esce sconfitto. Punito dalla legge e dal pubblico. Ma allo stesso tempo, adesso, grazie al suo unico amico, prevale su quanti sentenziano credendo di essere immacolati e sull’ottusità di quanti pensano che il male sia prerogativa di una minoranza. “Sono ebreo, - conclude Tubal - pensi che l’ebreo non abbia mani, organi, sentimenti, sensi o passioni? Come il cristiano non è lo stesso inverno che lo gela, la stessa estate che lo scalda? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci avvelenate non moriamo forse? E se ci disonorano non cerchiamo forse vendetta?” In Shylock perde il rancore, perde l’invidia, perde il male. Perde anche l’uguaglianza del genere umano.


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giovedì 1 ottobre 2015

L’UNGHERIA, I MIGRANTI E CINQUE ERRORI DA EVITARE

Migrante siriano alla stazione Keleti di Budapest (foto: MTI)
Se volessimo riassumere tutto con le parole pronunciate da Matteo Renzi all’ultima festa dell’Unità potremmo subito chiudere il discorso dicendo che il premier Viktor Orbán e i milioni di ungheresi che lo hanno votato e che si identificano in lui sono delle bestie. Riteniamo tuttavia opportuno strappare alla facile propaganda il dibattito sulla crisi migratoria restituendole una più dignitosa centralità politica, tanto più ora che media e cronache iniziano ad occuparsi di altro. La drammaticità di alcune immagini rischia di creare assuefazione e i sentimenti di rancore, solidarietà, compassione, indignazione che ne scaturiscono, prima o poi sfuggono via con la stessa velocità con cui si popolano e si spopolano le pagine di un social network. Diventano solo post vecchi. Allora può capitare che un povero corpicino esanime adagiato su una spiaggia turca rimuova dalla coscienza collettiva i singhiozzi e le lacrime di una bambina palestinese mentre Angela Merkel  è intenta a spiegarle come l’asilo politico non possa essere riconosciuto a tutti, nemmeno a suo padre. Così come può capitare che quello stesso povero corpicino si dissolva nella memoria superato da una reporter che si diverte a sgambettare migranti.  Questo rincorrersi e annullarsi di emozioni non è costruttivo ed è solo strumentale allo scaricabarile inscenato ormai da mesi dai governi nazionali. Provando allora a riflettere senza semplificazioni faziose e moralismi, ci sembrano almeno cinque gli errori da evitare.

Primo errore: la solidarietà non va confusa con la sovranità. La prima è una categoria etica personalissima che fa onore a chi la mette in pratica. La seconda è l’elemento costitutivo di uno stato e si fonda sul controllo del suo territorio e delle frontiere che lo delimitano. Quando poi si aderisce a convenzioni internazionali - nella fattispecie Schengen e Dublino - che disciplinano anche gli spostamenti transfrontalieri di cittadini extracomunitari, la responsabilità in capo ai singoli governi è duplice. Il caos generalizzato che si è creato lungo le rotte migratorie abituali che attraverso Balcani e Mediterraneo puntano al centro e al nord Europa, è frutto di un annunciato quanto inevitabile corto circuito. La fuga dei popoli da aree di disagio non è un fatto recente.  La novità è costituita dalle dimensioni e dall’origine dei flussi.  In più nè Schengen nè Dublino sono stati concepiti in una contingenza tale da poter prevedere un afflusso di immigrati così sproporzionato e concentrato nel tempo.

Particolare delle recinzioni sulla frontiera meridionale ungherese
Secondo errore: non si può giudicare la situazione che si è generata nel vecchio continente prescindendo dal collasso dell’ordine che ha retto per circa mezzo secolo alcuni paesi chiave dell’aera mediterranea. Le primavere arabe, efficaci nell’abbattere dittatori, hanno fallito nel tentativo di realizzare nuove forme di organizzazione sociale e politica. Nè tantomeno la comunità internazionale - organizzata e non -  è riuscita a proporre e a produrre delle soluzioni in grado di arginare lo stato di confusione e di guerra civile da cui fuggono ora milioni di profughi vittime di una pluralità di carnefici. Le nazioni pacificate non hanno che due alternative: occuparsi concretamente delle aree di instabilità senza escludere nessuno strumento, uso della forza compreso, oppure assistere consapevolmente da estranei all’esplosione di società incapaci di autogestirsi esponendosi di conseguenza a future crisi umanitarie oltre che ad attivissimi focolai di terrorismo.


Nei pressi di Szeged. (foto:Carlo Angerer NBC News)
Terzo errore: la predilezione per i profughi siriani rischia di creare una inutile discriminazione ed una solidarietà a numero chiuso. E’ difficile capire infatti perchè un cittadino siriano debba avere più diritti rispetto ad un iracheno della provincia di Ninive, ad un afgano di Kunduz o ad un libico di Sirte. Per non parlare di chi vive gli innumerevoli conflitti del continente africano e sfugge ad esempio dal macete di Boko Haram in Nigeria. L’occidente non è nuovo a queste forme di ipocrisia per cui le sofferenze patite sono più o meno degne di nota  a seconda della provenienza del dannato di turno. Affidarsi poi al diritto internazionale per definire il grado di stabilità raggiunto da un paese è risibile.

Quarto errore:  la tentazione di dividere i capi di stato europei in buoni e cattivi ignorando che i primi non sono propriamente immacolati. A guadagnarsi la fama del più cattivo tra i cattivi c’è però il premier ungherese. Ma cosa ha fatto Viktor Orbán per ottenere questo primato? A gennaio, in visita ufficiale a Parigi, tracciando un solco tra i rifugiati politici e i migranti economici, ha solo anticipato uno dei princìpi cardine delle future politiche migratorie fatto proprio nel corso dei mesi  successivi dai governi, Commissione Europea compresa. Ha scelto di erigere delle barriere - temporanee e amovibili -  sulle frontiere meridionali del paese mentre il suo collega inglese Cameron  inviava cani addestrati e materiali di recinzione alla gendarmeria  francese per bloccare i migranti a Calais. Ha deciso l’impiego dell’esercito per  coadiuvare la polizia nella difesa dell’ordine pubblico e nel presidio delle zone di transito ufficialmente riconosciute, quando le forze armate altrove (si veda l’Operazione Strade Sicure in Italia) sono dispiegate con discrezione e senza psicosi nelle principali città con compiti di vigilanza e di lotta alla criminalità. Röszke e Bicske, poi, non meno di Ceuta, Lesbo, Lampedusa, Ventimiglia o il varco dell’Eurotunnel sono i luoghi dove è andata e va in scena l’impreparazione degli stati europei di fronte ad un fenomeno che non può essere gestito se con uno sforzo collettivo e unitario in termini di strategie e risorse.

Migrante in viaggio da Röszke a Budapest (foto: mno.hu)
Quinto errore: non sottovalutare Viktor Orbán quando parla di difesa della cristianità del continente. La questione posta dal premier ungherese non è secondaria. Se al momento la presenza degli immigrati è un problema di ordine pubblico e di emergenza umanitaria, nel lungo termine sarà ineludibile affrontare il tema dell’integrazione. Quale sarà il modello di società proposto dall’Europa alle nuove generazioni ed alle migliaia di musulmani incorporati? Un multiculturalismo laicista da autocensura o una collettività tollerante fiera delle libertà di cui è garante ma rispettosa al tempo stesso delle sue radici cristiane? La vera sfida avrà luogo una volta rimossi gli ostacoli fisici. Parlarne pertanto ora, in questi termini, con schiettezza e con la giusta retorica non può che essere di aiuto, a meno  che la religione non sia considerata un fattore anacronistico e in via di dismissione.



sabato 1 agosto 2015

TRA DOTTRINA POLITICA E DIRITTO: CONOSCIAMO PÉTER PACZOLAY, NUOVO AMBASCIATORE UNGHERESE IN ITALIA

L'incontro con Mattarella e la consegna della lettera di credenziali
Con la consegna della Lettera di credenziali nelle mani del Capo dello Stato Sergio Mattarella il 15 luglio, si è perfezionata e ultimata la procedura di nomina del nuovo ambasciatore della Repubblica d’Ungheria in Italia, S.E. prof. Péter Paczolay. Il nuovo inquilino di Via dei Villini non è un diplomatico di carriera ma presenta un curriculum prestigioso. Fino al febbraio scorso ha ricoperto infatti la carica di presidente della Corte Costituzionale ungherese. Il 15 marzo, in occasione della festa dell’indipendenza nazionale, aveva ricevuto l’Onorificenza al merito della Repubblica d’Ungheria e in quella data l’assegnazione alla sede diplomatica di Roma era probabilmente molto più che in via di definizione.

Péter Paczolay
Non è difficile trovare un legame tra il prof. Paczolay e l’Italia. Chi ne conosce i trascorsi accademici sa che quando fu chiamato dall’ex-professore e amico Mihály Bihari alla cattedra di Scienze politiche, da lui fortemente voluta all’Università ELTE di Budapest, Paczolay era presentato come il maggiore esperto ungherese vivente di Machiavelli. Péter Paczolay è uno dei cosiddetti “professori intercity”. La sua carriera universitaria, dal 1990 al 2005, si divide infatti tra insegnamento e incarichi di dirigente e vice-preside di facoltà a Budapest e a Szeged. Oltre alla dottrina politica - settore disciplinare privilegiato nonchè materia di insegnamento - si distingue per lo studio del diritto costituzionale comparato e del diritto pubblico dei paesi europei. Nel ’90 László Sólyom, primo presidente della Corte Costituzionale, lo vuole al suo fianco prima come consigliere poi come segretario generale dell’istituzione. Con l’elezione di Ferenc Mádl alla presidenza della repubblica nel 2000, Paczolay viene ingaggiato come vice-direttore dell’Ufficio del Presidente (KEH). Sono anni in qui egli si dedica all’applicazione e alle possibilità di esercizio del diritto di veto costituzionale presidenziale. Come conseguenza lo strumento viene utilizzato spesso in quel periodo e in modo politicamente definito bipartisan. A farne le spese saranno sia il primo esecutivo Orbán sia i governi socialisti Medgyessy e Gyurcsány. Sólyom, eletto successore di Mádl nel 2005, ritrova proprio il fidato Paczolay che con il suo lavoro sarà praticamente l’ultimo filtro di tutti gli affari giuridici sottoposti al Capo dello Stato.
La collaborazione tra i due dura pochi mesi perché nel 2006 è all’ordine del giorno la sostituzione di un giudice costituzionale. La forte sponsorizzazione di Sólyom unita alle qualità dell’uomo fanno di Paczolay il terzo caso in assoluto di giudice della Corte Costituzionale eletto per consenso. Si è detto che con un unico posto in palio non si poteva scontentare né la destra né la sinistra ma in Péter Paczolay sia destra che sinistra hanno trovato una figura tanto temibile quanto appropriata a ricoprire quel ruolo con un appoggio trasversale. Egli stesso si è definito in passato “conservatore moderato” ma anche “conservatore liberale”. Dopo soli due anni dalla nomina ottiene la presidenza dell’organo guardiano della Costituzione. Come ha ricordato di recente: “Io sono stato presidente di due Corti Costituzionali distinte: la prima volta quando sono stato votato dai miei colleghi, la seconda volta dal parlamento (in seguito all’approvazione della nuova legge sulla Corte ndr). Un’esperienza bella e rara e molti mi invidiano per questo”.
15 marzo 2015, festa nazionale ungherese. Consegna dell'onorificenza al merito
In una prima fase è stato inevitabile e pressoché perenne il confronto con quello che da più parti è stato definito il suo mentore, László Sólyom, incarnazione di una Corte Costituzionale decisamente protagonista e interventista negli anni del consolidamento democratico. Col tempo però Paczolay ha impresso sempre più il suo timbro in un quadro generale tutt’altro che stabilizzato. L’approvazione della nuova Costituzione, i successivi emendamenti molto criticati in patria e all’estero, una certa limitazione dei poteri della Corte stessa, la supermaggioranza del governo Orbán sono stati tutti momenti in cui una velata tensione tra i vari organi dello stato non è mai sfociata in aperte rotture grazie anche alla presidenza Paczolay.  Conservatore nelle questioni etiche, liberale quando si trattava di decidere sui diritti di libertá, il suo programma, come ha ribadito in uno dei suoi ultimi interventi da presidente, è stato quello “di infondere lo stato di diritto come elemento fondamentale nel funzionamento della Corte”. “Se la Corte - ha aggiunto - partorisce delle decisioni tra esse contrastanti non rafforza lo stato di diritto ma ne scava la fossa” . Quello  che lascia in eredità è un vero “testamento politico ovvero che i suoi successori devono sempre perseverare nel produrre sentenze coerenti”. 

A febbraio, in quello che è stato un congedo ufficioso dalla toga, di fronte all’Accademia Ungherese delle Scienze ha detto: ”Me ne vado soddisfatto, ma con questo non voglio dire che continuerei”. Continua tuttavia il servizio all’Ungheria di Péter Paczolay nella forma istituzionale più alta ovvero quella di capo missione diplomatica all’estero. Resta da vedere se Roma sarà la tappa iniziale di una nuova carriera o il coronamento di una già ricca esperienza di vita.
      

domenica 26 aprile 2015

NAPOLI E UNGHERIA UNITE DAL MEDIOEVO:STORIA E ARTE NEL LIBRO DI MÁRIA PROKOPP

Napoli e Ungheria sono molto più vicine di quanto si possa pensare. Questo legame affonda le sue radici nella storia medioevale e ruota attorno alla figura della regina Maria d’Ungheria andata in sposa a Carlo II d’Angiò. Un libro di Mária Prokopp racconta la storia di questo intreccio dinastico attraverso l’arte e i monumenti ovvero  i segni più tangibili che ne sono derivati e di cui tuttora Napoli è beneficiaria. Una trattazione fluida e ricca di documentazione fotografica per testimoniare quella che da più parti è definita ”l’età dell’oro” del capoluogo partenopeo alla cui fioritura ha partecipato una serie di sovrani di origini magiare.

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Per capire come mai lo stemma degli Árpád, la prima dinastia di sovrani magiari, possa ornare e sovrastare la facciata del duomo di Napoli basta leggere il nuovo libro della professoressa Mária Prokopp, “Ricordi ungheresi medievali a Napoli”. Mediante un percorso fatto di puntuali riferimenti storici che coprono un arco temporale di circa duecento anni a partire dalla seconda metá del 1200, la professoressa Prokopp, ordinario di Storia dell’Arte presso l’Università degli studi Eötvös Lóránd (ELTE) di Budapest, ricostruisce la cronologia della presenza ungherese nell’arte e nell’architettura napoletana. La trattazione è accompagnata da una ricca e dettagliata documentazione fotografica curata dall’ingegnere Horváth Zoltán György. Il volume edito da Romanika - casa editrice molto attenta alla diffusione del patrimonio culturale magiaro - si aggiunge ad altri lavori che in passato hanno avuto come oggetto le tracce e i monumenti ungheresi in Italia e a Roma.
 
Amedeo Di Francesco e Pierluigi Leone De Castris


L’ultima opera di Mária Prokopp, presentata al pubblico napoletano la scorsa settimana al caffè letterario del complesso di San Domenico Maggiore, si occupa in particolare del periodo angioino che senza alcun dubbio “può essere considerato l’età dell’oro per Napoli”, come ricorda il professore Amedeo Di Francesco nella sua relazione introduttiva.”E’ innaturale - sottolinea Di Francesco che insegna lingua e letteratura ungherese all’Università degli studi L’Orientale - parlare della Napoli angioina senza parlare di Ungheria”. Tutto ruota attorno alla figura di Maria d’Ungheria che entra nella storia del regno di Napoli attraverso il suo matrimonio con Carlo II d’Angiò. Gli effetti di questa unione si protraggono per diverse generazioni di sovrani napoletani e ungheresi. Nella cronologia della millenaria monarchia magiara si distingue ad esempio chiaramente la ”fase dei re angioini”. Il professore Di Francesco fa riemergere questa fusione dinastica elencando una serie di importanti richiami letterari. Carlo Martello, figlio della regina Maria, è il protagonista dell’ottavo canto del Paradiso di Dante. Andrea d’Ungheria brutalmente assassinato per intrighi di potere è invece il ”puer alti animi” di cui scrive Petrarca in una sua epistola delle Familiares. Imre Madách poi, scrittore ungherese dell’ottocento, dedica agli angioini una intera trilogia.
Pierluigi Leone De Castris

L’eredità più tangibile resta tuttavia quella affidata all’arte e i segni lasciati dagli angioini, negli anni trattati da Mária Prokopp, sono caratterizzanti non solo quell’epoca. Sono tuttora i simboli di una città. Le basiliche di San Lorenzo Maggiore, di Santa Chiara, lo stesso complesso di San Domenico Maggiore e il duomo, oltre ad appartenere al medesimo profilo architettonico, sono legate alla profonda devozione e alle vicende personali di una famiglia di regnanti che ha tra le sue figure di spicco proprio Maria d’Ungheria. Ne parla nella sua relazione il professore Pierluigi Leone De Castris, docente di storia dell’arte moderna all’Università Suor Orsola Benincasa, mettendo in risalto i pregi, la personalità, le doti di questa regina. Una donna dal carattere forte, lungimirante, amante e cultrice dello sfarzo ma al tempo stesso devota e umile nella preghiera.  Prima di tutto madre, di tredici figli, tra cui si distinguono principalmente due re ed un santo, quel Ludovico vescovo di Tolosa santificato proprio in sua presenza a significare quasi il riconoscimento della divinità della stirpe reale Árpád-Angiò (beata stirps). Maria è regina di Napoli e lo è anche quando rimane vedova. Difende strenuamente la doppiezza del trono magiaro e napoletano in favore del nipote Carlo divenuto precocemente re d’Ungheria. Di fronte alla prepotenza e alla caparbietà senza scrupoli del figlio terzogenito Roberto nel guadagnarsi la corona di Napoli, stanca di una politica fatta di troppe bassezze e  colpi di mano si ritira in convento insieme alle clarisse. Chiude la sua esistenza nella riflessione e nell’esperienza della vita monastica, ritornando idealmente alle origini.  Si può infatti intuire come nella sua educazione abbia influito l’avere avuto in famiglia Santa Elisabetta e Santa Margherita d’Ungheria, rispettivamente zia del padre e zia paterna.

La professoressa Mária Prokopp

La predilezione per l’ordine francescano, di cui divenne anche terziaria, non inibisce tuttavia il gusto della regina per il lusso come dimostra una commissione - documentata - di 4600 pelli e piumaggi di pavone. Il patrimonio personale di Maria d’Ungheria è stato valutato in quattromila once, una cifra pari ad un decimo delle entrate dell’intero Regno di Sicilia, un autentico tesoro in buona parte investito in numerose attività di mecenatismo. Si ricordano tra gli altri le sovvenzioni per alcuni affreschi nella Chiesa inferiore della Basilica di San Francesco ad Assisi. Il nome della sovrana si lega però alla cosiddetta “opus manuum suarum” per eccellenza, il complesso di Santa Maria di Donnaregina, realizzazione fortemente voluta da Maria e donata alle clarisse orfane del loro convento distrutto da un terremoto e la cui chiesa ne ospiterà anche il monumento funebre. La memoria di questa sovrana ungherese è così affidata alle opere e ai monumenti di cui è stata committente e finanziatrice.

“Ricordi ungheresi medievali a Napoli” della professoressa Prokopp, presentato grazie al patrocinio del Consolato ungherese e dell’associazione culturale che porta il nome non casuale della regina Maria d’Ungheria, è un manuale di facile lettura, in cui la dimensione scientifica del testo si fonde con quella divulgativa. Nelle pagine del libro, grazie all’arte e alla storia, si legge un messaggio valido per le generazioni attuali. La Napoli angioina, baricentro di un regno che racchiude in sè la compenente francese e provenzale, mediterranea e orientale, che estende le sue mire fino a Gerusalemme e al Danubio, sembra essere lontanissimo precursore del progetto di unità del continente europeo. Il lascito del dominio angioino arricchito, come descritto, dall’elemento magiaro è artistico e politico al tempo stesso. La cultura europea non va solo conservata, ma continuata.

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mercoledì 18 marzo 2015

FESTA NAZIONALE UNGHERESE A NAPOLI:LA COMUNITA' INCONTRA IL PREFETTO

Rappresentanti della comunità ungherese a Napoli in Prefettura
Quest'anno la ricorrenza del 15 marzo, in cui si celebra il ricordo della guerra d'indipendenza ungherese del 1848-49, è stata occasione di incontro tra la piccola comunità magiara di Napoli e il nuovo prefetto della città Gerarda Pantalone. La massima autorità governativa sul territorio ha aperto le porte del suo studio privato ad uno scambio in cui formalità e informalità si sono coniugate per dar vita ad una piacevole conversazione. La circostanza non è casuale se si considera che Garibaldi affidò la prima esperienza di governo di Napoli ad un ungherese, Stefano Türr. L'effige del generale danubiano è poi riprodotta in un pannello scolpito esposto proprio su una delle pareti esterne del palazzo della Prefettura. L'opera fu inaugurata nel 2002 dal presidente della repubblica ungherese Ferenc Mádl , primo capo di stato in visita ufficiale a Napoli dal 1963, quando era stato John Kennedy a sfilare per le vie della città. Da allora l'omaggio a Stefano Türr è un appuntamento fisso, come ricorda al prefetto Judith Jámbor, presidente dell'associazione "Maria d'Ungheria Regina di Napoli", organizzatrice dell'evento insieme al Consolato d'Ungheria.

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venerdì 20 febbraio 2015

PUTIN A BUDAPEST: PICCOLO VALZER DI OPINIONI SULLA STAMPA ESTERA

Orbán e Putin a colloquio nell'Ufficio del premier ungherese al Parlamento
Per alcune ore martedì scorso l’attenzione della stampa internazionale si è concentrata su Budapest dove il Presidente russo Vladimir Putin è stato in visita ufficiale. Offriamo una breve rassegna stampa così come raccolta dal portale del quotidiano Népszabadság.

Il New York Times nella sua corrispondenza parla del viaggio di Putin come decisamente più dimesso rispetto alla “marcia trionfale” dell’ottobre scorso in Serbia, tanto per le difficoltà economiche russe – si ipotizza – quanto per la necessità del premier Viktor Orbán di ricucire con l’Occidente. Il leader russo si è visto in pubblico solo al momento della conferenza stampa congiunta in cui si è mantenuto comunque un basso profilo.  Non sono stati toccati argomenti scomodi per entrambi del tipo Ucraina (sponda russa) o cenni su  "democrazia illiberale"rifiuto di migranti economici (sponda ungherese).
  
Il Washington Post espone l’oggetto degli accordi firmati dai due leader, in particolare mette in risalto il favore e l’impegno di Mosca nel finanziare, costruire, e alimentare con combustibile la centrale atomica Paks-2, in grado di assicurare un quarto della fornitura di energia elettrica dell’intera Ungheria. Secondo il quotidiano l’investimento è volto a guadagnare la lealtà ungherese ed una maggiore influenza nel paese. “A quanto pare sembra essere la strategia giusta - scrive WP - considerando i favori politici e diplomatici offerti alla Russia ed elargiti col chiaro intento di strappare prezzi del gas più bassi”. Secondo una fonte diplomatica anonima esperta di questioni magiare riportata dal giornale, l’obiettivo non dichiarato della Russia è quello di rompere l’unità europea servendosi proprio degli stati più deboli. L’Ungheria dal punto di vista energetico è assoggettata. L’impegno russo nel nuovo reattore nucleare ungherese è stato dunque ripagato con un dono gradito e atteso da Putin: la possibilità di andare in visita in una capitale europea.
L'impianto nucleare di Paks in Ungheria

WP  fa anche notare come per quanto l’Ungheria abbia fatto di tutto per non caricare di significati diversi da quelli del business l’accordo del reattore di Paks e la visita di Putin, la Russia non distingue mai la politica dagli affari. Risulta poi che l’Ungheria proprio in virtù del citato accordo sia entrata in contatto con due uomini d’affari vicini al presidente russo, iscritti tra l’aprile e il luglio scorsi nella “lista nera” delle sanzioni di USA e UE scaturite dalla vicenda ucraina. Si tratterebbe di Dmitrij Kozak e Boris Gryzlov rispettivamente presidente del consiglio di amministrazione delle banche coinvolte nel progetto Paks e presidente del consiglio di amministrazione dell’agenzia atomica russa Rosatom. WP conclude con le dichiarazioni del commissario del governo ungherese per l’allargamento di Paks Attila Aszódi che, interpellato sulla questione, nega la conoscenza di simili relazioni assicurando al contrario che il ruolo dei politici in affari simili è “molto piccola”.

Secondo il Wall Street Journal la visita di Putin in Ungheria è parte di un percorso di riequilibrio tra Est e Ovest di Viktor Orbán. Se infatti negli ultimi tempi il premier magiaro ha da un lato scontentato Bruxelles con misure di accentramento del potere, con la riscrittura della costituzione e con la più recente teoria della democrazia illiberale, si è mantenuto tuttavia fortemente fedele alle membership NATO e UE.

Maggiore scetticismo è manifestato dal Financial Times che ha sottolineato l’ironia nascosta del gesto con cui Putin ha reso onore ai soldati russi morti in Ungheria nel 1956 senza fare lo stesso con le vittime della rivoluzione.  Per il quotidiano britannico la tappa ungherese di Putin è la dimostrazione che in Europa ci sono ancora capitali dove viene festeggiato nonché la constatazione per l’Occidente che la Russia ha ancora influenza sull’Europa orientale e che la dipendenza energetica da Mosca è destinata a perpetuarsi.