domenica 10 novembre 2013

PESTI SRÁCOK BUDAI SRÁCOK...CRONACA DI UNA GIORNATA TRA BUDA E PEST RICORDANDO IL ‘56

L'aiuola di fronte al monumento di Imre Nagy a piazza Vértanuk
Il nostro 23 ottobre (di cui abbiamo già parlato qui) comincia a mezzogiorno e abbiamo un obiettivo ambizioso. Sfidare l’ubiquità. Seguiremo le tre manifestazioni in programma tra Buda e Pest: alle 13.30 lo Jobbik è a piazza Deák Ferenc, alle 14 l’opposizione di sinistra incontra tutti i suoi leaders presso il lungofiume, altezza Politecnico (Műegyetem), alle 16 il discorso del primo ministro chiude le celebrazioni ufficiali del governo in Piazza degli Eroi. L’impresa non è semplice ma nemmeno impossibile. La giornata è bellissima e il meteo promette temperature tardo-primaverili. Il kit d’assalto prevede carta, penna, smartphone e....pogácsa (rustica prelibatezza magiara ottima per placare la fame). Un ultimo sguardo al sito dei trasporti urbani BKK per studiare la mappa del traffico di questa Budapest festiva e blindata. Si parte. Il giro comincia dal cuore del XII distretto, Farkasrét. Nell’attesa del tram 59, il tram della nostra infanzia ungherese, brevissima sosta all’edicola. Quanto basta per accorgersi che in città saranno prove generali di campagna elettorale in vista del voto della prossima primavera. I titoli di Magyar Nemzet e Népszabadság  parlano infatti dell’ultimo scivolone targato MSZP. Un video falso commissionato (pare dai socialisti) per avvalorare quelle irregolarità compiute a loro volta dal FIDESZ e che hanno portato alla ripetizione del voto nella circoscrizione 32 alle ultime suppletive della città di Baja. Insomma botta e risposta al limite del lecito in una circoscrizione di qualche centinaio di anime che nelle ultime settimane sembra essere il centro del mondo.  Fatte le dovute proporzioni, visto il clamore generato, modello Florida 2000.
Bandiere alla manifestazione dello Jobbik a piazza Deák Ferenc

Giusto il tempo di una riorganizzazione mentale del nostro tragitto ed i pannelli pubblicitari della metro di piazza Széll Kálmán (la vecchia Moszkva tér), aggiornati a dovere, ci riportano con la mente al 1956 ed al senso della giornata odierna. Due minuti e siamo già a Pest dove la prima tappa è all’angolo di piazza Kossuth Lajos. Mimetiche, anfibi, molte divise e anche qualche testa rasata. Tutto questo ai piedi del  palco dello Jobbik (formazione di estrema destra) dove campeggia un motto non proprio europeista  “Tagok legyünk vagy szabadok?” “Vogliamo essere membri o liberi?”.  Mentre enormi casse diffondono le canzoni del gruppo rock-metal-nazionalista Kárpátia le truppe si radunano e si dispongono in file sotto i vessilli bianchi e rossi della dinastia Árpád. Stile decisamente militare dunque per un partito la cui élite militante è raccolta nella Új Magyar Gárda, la Nuova Guardia Magiara erede della Magyar Gárda, Guardia Magiara, sciolta su sentenza di un tribunale di Budapest  nel 2009. Il salto indietro nel tempo è notevole. Lo si capisce anche dal banchetto dei gadgets dove si vendono polsini e adesivi dell’Ungheria pre-Trianon insieme a volti di un giovane ammiraglio Horthy.  La statua di Imre Nagy, il protagonista politico del ’56, osserva l’adunata che di lì a breve muoverà verso Deák Ferenc dove siamo diretti per la nostra seconda tappa.
Ferenc Gyurcsány sul palco dell'opposizione al Politecnico

Ci ributtiamo nella metro seguendo il percorso obbligato dalle transenne dell’immenso cantiere che si estende all’ombra del Parlamento dove tra cumuli di terriccio gru e pale meccaniche riposano ferme nel silenzio di questo giorno di festa. Riemergiamo sotto il controllo meticoloso ma discreto della polizia dove si incontrano ancora gruppetti di gárdisták (guardie dello Jobbik) in attesa del grosso delle truppe. Siamo ancora nei tempi e ci concediamo un salto al civico 60 di via Andrássy  dove già dalla mattinata si può rendere omaggio ai caduti della rivoluzione le cui foto segnano ad altezza d’uomo il perimetro della Terror Háza, il massiccio edificio in cui i regimi del XX secolo hanno rinchiuso e torturato migliaia di ungheresi. Il boulevard Andrássy chiuso ormai al traffico all’altezza dell’Oktogon si popola lentamente. Giovanissimi volontari si dividono i compiti e soprattutto le bandierine tricolore da distribuire a chi confluirà qui per il discorso di Viktor Orbán. Diversi i maxischermi e gli impianti acustici giá attivi. La tv pubblica allestisce le sue postazioni. Troppo semplice per noi fermarci e aspettare qui con calma. Sta per cominciare la manifestazione delle “sinistre” al Politecnico. E’ quello ora il nostro obiettivo dunque direzione Buda. A Deák Ferenc, sempre più baricentro del nostro tour, ci rendiamo conto che non sarà una passeggiata. Ce lo conferma il 49, tram dai vagoni ancora old-style per l’occasione rigorosamente decorati a festa con i tricolori, stracolmo di viaggiatori quasi tutti con la nostra stessa meta. Arrivati al ponte della Libertà c’è gente che resta a terra nelle fermate. Il tram ormai saturo quasi non riesce più a ripartire, la motrice slitta sulle rotaie senza avanzare mentre qualche anziano si chiede se saranno di più quelli di Orbán o quelli dell’opposizione. Sul ponte l’afflusso dei manifestanti ormai anche a piedi è notevole. Si intravede già il palco sulla riva opposta ed il colpo d’occhio è interessante anche a distanza. Scendiamo al Gellért e raggiungiamo la platea attraverso l’unico varco possibile e nell’unico modo possibile, facendo fila indiana.

Viktor Orbán parla a Piazza degli Eroi

La folla dei fans del kormányváltás (cambio di governo) si estende lungo il Danubio per 300 metri. Predominante è il colore rosso delle bandiere socialiste dell’MSZP. Ma ci sono tutti. I liberali, i democratici, i banchetti di Együtt 2014, i movimenti. Qui di Trianon o di Székelyföld (terra di magiari in territorio rumeno) non c’è traccia. In compenso c’è la bandiera europea, pezzo molto raro nelle piazze ungheresi degli ultimi anni. I cartelli recitano ”Democrazia NON Teocrazia”, ”Costituzione Secolare”. La location è evocativa. Da qui partirono i cortei studenteschi che nel ’56 coinvolsero tutta la nazione. Il nemico di allora i sovietici. Il nemico di oggi  Orbán. Il motto è suggestivo: “A szabadság összeköt” ”La libertà unisce”. Il popolo della sinistra c’è e attende al microfono i suoi leaders. Le video-testimonianze del poliziotto in difficoltà, della maestra che non arriva alla fine del mese, del tabaccaio cui è stata tolta la licenza riscaldano gli animi. Tiepida invece la partenza di Gordon Bajnai, ma è carattere. E’ lui il primo iscritto a parlare. Lui che proprio oggi festeggia un anno di vita di Együtt 2014 (Insieme 2014), la sua creatura politica. “Orbán dirige il paese diritto contro l’iceberg” e si rumoreggia contro il ”regime”. Si ironizza su Felcsút paesino dove Orbán è cresciuto e che per Bajnai  è una “Disneyland privata col suo nuovo stadio, con la sua nuova ferrovia”. L’ex-primo ministro articola i suoi tre obiettivi: “kormányváltás (cambio di governo), korszakváltás (cambio di epoca), jó kormányzás (buon governo)”.”Orbánország vagy Magyarország” “Orbán e il suo stato oppure l’Ungheria”, questa è la scelta da fare nel 2014. Questo il gioco di parole con cui Bajnai esalta tutti. Poi l’invito conclusivo è quello di alzare al cielo lo strumento, invenzione ungherese, con cui “in sole due mosse l’anno prossimo si manderà il governo a casa”: la penna a sfera. Tripudio. A mantenere carichi gli umori ci pensano due vecchie glorie degli anni novanta, ringiovaniti e ri-discesi in campo: Gábor Kuncze e Lajos Bokros.  I toni non sono proprio pacatissimi. “Il governo Orbán mafioso” si sconfigge con “i fatti e non con i piagnistei” spiega lo storico leader dei liberi-democratici. “Un partito - incalza poi Bokros - che aumenta le tasse, nazionalizza, ostacola l’impresa privata, intimorisce gli impiegati pubblici e diffonde ovunque il controllo statale non è di destra ma è neo-comunista ed i neo-comunisti non sono democratici”.  Il lessico anti governativo abbonda ma i due “veterani” toccano un altro tema molto ricorrente in questo happening dell’opposizione: la necessità di correre insieme e di farlo con liste comuni. 

Si cantano inni patriottici in via Andrássy
Ed è proprio sulla dura autocritica (ma anche molta critica) che costruisce il suo discorso Ferenc Gyurcsány. L’unico a dimostrarsi capace di infiammare ed entusiasmare le masse anche oltre i propri rumorosissimi attivisti, l’unico ad avere il carisma giusto per permettersi  di poter fare il bastian contrario senza essere per questo fischiato. Ricorda il passato, “ben due volte ho preso parte alla sconfitta di Orbán”, non tralascia il presente,”è una bugiarda canaglia a guidare il paese”, mette in guardia sul futuro,”se si continua così si perde”. Ed è da qui in poi che i destinatari nascosti del messaggio di Feri, come lo chiamano i suoi, diventano Mesterházy e Bajnai freschissimi di un accordo elettorale tanto tormentato nella gestazione quanto debole nelle sue clausole, utile a spartirsi i collegi uninominali ma ancora inconcludente sulla questione della candidatura alla carica di capo del governo. Gyurcsány, da parecchio sostenitore di una opposizione unita in maniera organica, mette a nudo gli ostacoli a questo progetto, al suo progetto: “i tatticismi, le ambizioni personali, la faziosità”. La vittoria ha una sola ricetta,“un programma comune, un candidato premier comune, candidature comuni”. ”L’opposizione - dilaga il capo di Demokratikus Koalíció (Coalizione Democratica) - ha bisogno di una guida, non due, tre, otto”. Parole sufficienti  a rovinare un tantino l’intervento di chiusura del presidente dei socialisti Mesterházy che sapremo ex-post essere stato ripetutamente disturbato da qualche indisciplinato (o forse ben ammaestrato) tifoso di Gyurcsány. Riascolteremo il discorso del capo dell’MSZP in differita perché il nostro racconto non finisce qui sotto la facciata del Politecnico. Lasciamo le moltitudini anti-governative per raggiungere quelle filo-governative quando è il turno del liberale Gábor Fodor che continua sulla stessa linea di chi lo ha appena preceduto.

Si accendono candele lungo via Andrássy

Da questo momento abbiamo 40 minuti d’orologio prima che parli Orbán. Circoscriviamo l’isolato del Politecnico e il fedele 49 ci riporta a Pest. In piazza Deák i vessilli dello Jobbik sono ancora tutti al vento e un deputato, Dániel Kárpát, tuona contro le banche:”Hanno derubato tutti!”. Dalle spalle della Basilica di Santo Stefano a Piazza degli Eroi ci separano ora ”solo” i due chilometri di via Andrássy ma la comunicazione di servizio che ci arriva a bordo della metro leggera (la storica Földalatti) è tremendamente chiara: da Oktogon in poi si procede a piedi. Ce lo aspettavamo. Rispetto a tre ore prima il quadro è diverso. Fa più caldo, siamo più stanchi, c’è una marea di persone. Siamo nel mezzo della marcia della pace (Békemenet) partita da Buda e che ormai è nel suo tratto finale. A questo punto fare paragoni con quello che abbiamo visto fin qui è un’inutile quanto scontato esercizio.  I numeri sono diversi. Ma qui c’è la manifestazione ufficiale del governo. Qui c’è tutto il popolo di Orbán che quando si organizza arriva dalla provincia e da tutto il bacino dei Carpazi. Dal Balaton a Felvidék, da Sopron al cuore di Erdély, in jeans,maglietta e zainetto ma anche in costumi  tipici. Leggendo le centinaia di cartelli l’impressione è che non manchi nessuno: c’è il paesino, c’è la città, c’è Gemzse, c’è Debrecen. Pochi sono i giovani ma le altre piazze non hanno fatto meglio. Qui si viene ad ascoltare Orbán. Lo si scorge negli occhi di chi ha fatto tanta strada anche solo per vederlo. In più si viene per esprimere l’orgoglio di un’ungheresità che fa sfoggio di sè nei tricolori fissati persino su una semplice canna da pesca. E la cornice migliore non può che essere questa liturgia quasi kadariana allestita ai piedi del colonnato che ospita le statue bronzee dei sovrani ungheresi. Le marcette si alternano a musica tzigana  e a poesie patriottiche rivisitate e musicate in chiave moderna. L’ingresso delle bandiere storiche e l’inno nazionale preannunciano l’arrivo del premier. Quando lo speaker lo invita sul podio è giubilo generale. Partono i cori. ”Viktor, Viktor, Viktor...” E’ bolgia. E’ lui la guida, l’unico che può difendere la nazione magiara. Questo sembrano volergli dire i suoi fedeli, si perchè ormai il rapporto tra Orbán ed elettore è per molti una questione di fede. ”Tutto il mondo si toglie il cappello per commemorare le vittime del ’56” esordisce lui, ”Gloria Victis”. Il tema poi è fin troppo facile, comunismo e anticomunismo. Significati e memoria vengono articolati con la giusta dose di retorica. ”Tre volte nel secolo scorso l’Ungheria ha cacciato via i comunisti  nel ’19, nel ’56 e nell’’89.” Un pensiero doveroso va a chi è rimasto in Ungheria anche dopo la rivoluzione pensando che ”non può scappare via un’intera nazione”, quella generazione che ha sopportato ”umiliazioni, ritorsioni, frontiere chiuse ” ma che ciononostante  ”ci ha partoriti, cresciuti, educati rendendoci capaci di conquistare la libertà nell’89”. Dopo una discreta parentesi storica si passa all’attualità: ”tuttavia aver cacciato i sovietici non significa ancora essere liberi del tutto, e per questo l’anno prossimo occorre completare l’opera”.  La sfida elettorale è appena lanciata, il generale chiama a raccolta i suoi. ”Se volete mantenere quello che avete, dobbiamo ripetere l’esito elettorale del 2010. C’è bisogno di tutti, dal professore al macellaio. Siate pronti alla lotta come nel ’56. Ognuno al proprio posto. Hajrá Magyarország! Hajrá Magyarok! Viva l’Ungheria! Viva gli ungheresi!”. 
Lumini e candele sul perimetro del Terror Háza

La classica chiusura di Orbán segna anche la fine della nostra cronaca. Ci dileguiamo soddisfatti nel gradevole tepore del crepuscolo tra gruppi che spontaneamente ancora intonano con trasporto quasi commosso l’inno seclero o il Szózat del poeta Vörösmarty. E un’anziana signora è china sul ciglio della strada ad accendere la sua candela. Nell’altra mano stringe la bandiera ungherese. Gesti come questi valgono mille volte il patriottismo di facciata. Al 60 di via Andrássy le fiammelle dei lumi a quest’ora sono più forti. Si moltiplicano di secondo in secondo. Ci suggeriscono una cosa. Oggi la parola più usata tra Buda e Pest è stata ”libertà”. E’ stata declinata in mille modi a servizio della storia, della politica, della propaganda. C’è chi invece è morto per una libertà, la sola che in vita non ha mai ottenuto. 







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Post Scriptum: il nostro più sentito ringraziamento va al BKK, i trasporti pubblici di Budapest che non smentendo la rinomata professionalità e precisione ci hanno consentito di essere dovunque in tempi brevissimi.