mercoledì 24 luglio 2013

CONFERENZA ANNUALE DEGLI AMBASCIATORI. ORBÁN PARLA DI UNIONE EUROPEA: DIFENDIAMO IL NOSTRO SPAZIO DI MANOVRA

Il premier Orbán alla Conferenza annuale degli ambasciatori
La scorsa settimana si è tenuta a Budapest la Conferenza annuale degli ambasciatori che ha richiamato nella capitale ungherese 107 capi-missione. I diplomatici hanno assistito a più di quaranta relazioni e tra i vari relatori hanno figurato tutti i ministri del governo in carica. Ogni anno è invitato anche un relatore esterno, una sorta di ospite d’onore che stavolta è stato il ministro degli esteri indiano Szalman Kursid a testimonianza del buon funzionamento della politica di “apertura orientale” (keleti nyitás), al momento tra i cardini della diplomazia magiara e non a caso tema portante della scorsa conferenza. A presentare la tematica di questa sessione di lavori è stato il primo ministro Viktor Orbán che nel primo dei due unici discorsi aperti al pubblico (il secondo è stato quello del ministro degli esteri János Mártonyi) ha parlato estesamente dei rapporti tra Ungheria e Unione Europea sotto il profilo della politica economica.
Orbán ha analizzato in modo molto chiaro, lineare e pragmatico la posizione e l’attività dell’UE nella situazione di crisi attuale e altrettanto concreto è stato nell’esporre gli interessi e il ruolo dell’Ungheria all’interno dell’Unione in questa fase, fino quasi a definire in linea generale il suo pensiero sul processo stesso di integrazione europea. Nessun tono retorico per una relazione - di cui proponiamo un’esauriente panoramica - che a tratti può essere considerata persino europeista e le cui premesse sono già tutte, come fa notare con una punta di ironia il quotidiano Népszabadság, nell’allestimento del podio che insieme ai tricolori magiari presenta inusuali bandiere dell’UE. L’unica nota di sentito orgoglio e soddisfazione prettamente nazionale è nell’introduzione dedicata ad una breve elencazione dei risultati conseguiti dal governo che negli ultimi tre anni ha invertito quella che era una tendenza negativa dell’economia del paese: rapporto deficit-Pil sotto la soglia del 3%, debito pubblico ridotto, indipendenza da aiuti finanziari esteri, alleggerimento del carico di chi ha contratto debiti con l’estero, occupati in aumento,  crescita dei salari reali, abbattimento delle tariffe, PIL in risalita. Il raggiungimento di questi obiettivi non deve però far pensare - ha ricordato Orbán -  all’inesistenza di sforzi futuri per mantenere questo quadro idilliaco ma è comunque una base sicura per evitare sforzi “straordinari”.

Al miele della politica interna segue l’amaro realismo della politica estera e la questione da chiarire subito ma per cui non c’è ancora una risposta unanime è la durata di una crisi economica partita dagli Stati Uniti e che è già al suo quinto anno di vita:  “Crisi transitoria dunque o i primi anni di un periodo storico più lungo, di riassetto del potere mondiale tale però da mantenere l’Europa in una condizione di declino?”, questo è il vero dilemma. L’unica cosa evidente in questo contesto è la creazione di una nuova divisione in seno al vecchio continente tra ”paesi membri e non membri dell’eurozona”. Affrontare la crisi con una propria valuta nazionale è oggettivamente diverso rispetto al farlo con una moneta comune e condivisa. Si assiste, sostiene Orbán,  ad una progressiva “istituzionalizzazione dell’eurozona” i cui paesi agiscono al limite di quanto previsto dai Trattati rispondendo alle attuali difficoltà con “proprie trattative, proprie procedure, proprie istituzioni”. L’Ungheria non può che prendere atto di questa realtà che tutto sommato sperimenta costantemente già a partire dalla data di adesione, il 2004. E’ da allora secondo il primo ministro che la diplomazia magiara cerca di far fronte all’interno delle istituzioni europee a quella che è una situazione di disagio per il paese ossia il sentirsi finalmente parte di un progetto, “l’essersi  avvicinati da una periferia al centro ma accorgersi allo stesso tempo che quel centro si sta allontanando di nuovo e che si sta occupando una nuova posizione periferica”. Il realismo di Orbán sta nel riconoscere che i paesi dell’area-euro non hanno scelte alternative ad un’integrazione più stretta per non perdere il proprio denaro e per buttare giù le basi di una UE in futuro competitiva. 
Ne derivano due posizioni che l’Ungheria può assumere in questo frangente, la prima passiva la seconda attiva. In primis c’è da sperare nel successo di questi sforzi compiuti dall’eurozona, area con cui Budapest è strettamente interdipendente se solo si considerano i legami di import-export. Per questo “non si può far altro che pregare” -  scherza il leader del FIDESZ - “e non ostacolare tali dinamiche”. Un insuccesso equivarrebbe a serie ripercussioni sulla stessa economia magiara. A tal proposito il capo del governo ricorda il ruolo determinante dell’Europa centrale (közép Európa) nel trascinare la crescita economica dell’UE che altrimenti conoscerebbe la recessione già da diversi anni e aggiunge anche una sua convinzione abbastanza datata secondo la quale l’Unione avrebbe dovuto consentire l’integrazione dell’est Europa già nel biennio 1995/1996. 
Per ribadire quello che invece l’Ungheria può e deve fare e che le è consentito legittimamente da questo nuovo dualismo creatosi de facto, Orbán usa tre verbi: “kivívni, fenntartani, megvédeni” ossia conquistare, mantenere e difendere uno spazio di manovra nelle scelte di politica economica nazionale. E’ una lotta che ha nel pensiero burocratico di Bruxelles il suo avversario. “L’Europa - si afferma - non può imporre soluzioni e progetti unitari di politica economica a paesi che sono al di fuori dell’eurozona”. Le sfide di questi paesi sono diverse e non hanno le stesse necessità, obblighi e condizionamenti provenienti dall’appartenenza ad una moneta comune. Una mentalità burocratica, spiega Orbán, è sempre portata a ricercare e ad ottenere anche forzatamente il consenso intorno ad un’idea che crede possa andare bene per tutti, ma la “teoria è diversa dalla realtà”.  La tutela di questo libero spazio di manovra dovrà essere dunque un elemento imprescindibile della politica estera ungherese dei prossimi anni. 

Il capo del governo passa poi ad analizzare la questione che forse più di ogni altra costituisce, anche da un punto di vista profondamente teorico, il cuore del contrasto tra l’Ungheria e “gli occidentali”:  la disputa tra selettività e normatività. Si parte da un assunto, “in tempo di crisi gli strumenti normativi di politica economica non funzionano” laddove normalmente tutti anelano a questo tipo di regolamentazione.  All’estero la si definisce “prevedibilità” vale a dire, continua  Orbán, ”un’economia è prevedibile quando ad essa si applicano regole generali valide per tutti”.  Nei fatti però in una contingenza di crisi ”la normatività non può trovare spazio”. ”Non si è mai visto - sostiene il premier - che in tempo di crisi si riuscisse ad evitare provvedimenti mirati e selettivi”. E’ dunque legittima la selettività nell’adozione di provvedimenti di politica economica e in questo gli esempi migliori vengono proprio dall’Ungheria.  Agli ambasciatori  viene ricordata l’applicazione del criterio selettivo da parte dell’esecutivo in tema di politiche di difesa del lavoro. Così è stato per la riduzione delle spese contributive dei datori di lavoro nel caso di particolari categorie: giovani in cerca di prima occupazione, lavoratrici reinserite dopo la maternità, lavoratori prossimi al pensionamento e inoccupati di lungo termine reintegrati. Stessi provvedimenti mirati anche nel campo della tassazione delle aziende dove sono stati interessati in maniera specifica il settore bancario, del commercio e delle telecomunicazioni. Orbán riconosce come alla luce di questo, specie nell’ultimo caso, sia comprensibile la reazione dei grandi gruppi stranieri presenti in Ungheria che si sono visti discriminati solo perché operanti in un settore che il governo ha ritenuto necessario “colpire”.  Per il paese la selettività, possibile solo grazie al sostegno garantito da una maggioranza parlamentare dei due terzi (kétharmados), è stata una scelta obbligata per risollevarsi ed invertire i trend economici negativi. In un quadro in cui le misure di politica economica mirate sono sottoposte a continui attacchi i diplomatici sono chiamati a difenderle sia nel merito sia nel principio stesso da cui scaturiscono.  Tuttavia il primo ministro, pur difendendone l’irrinunciabilità e l’irreversibilità, si astiene dal considerare la selettività come un paradigma certo da proporre come tale agli altri stati almeno fino a quando i risultati di successo siano definibili di lungo termine. 

Nell’ultima parte dell’ intervento si pone l’accento su di un altro ordine di questioni dibattute tra l’Ungheria e l’Unione che non è del tutto indipendente dalla issue selettività-normatività. In questa prospettiva si usa molto nei media e tra gli addetti ai lavori il termine ”guerra di indipendenza” (szabadságharc) che Orbán definisce non del tutto inappropriato ma che corregge con quella che per lui è la vera priorità ossia preservare gli equilibri tra la comunità europea e i singoli stati. Si assicura che l’Ungheria non ha nessuna intenzione di rendersi indipendente da un progetto comune quale è l’Unione. Si tratta piuttosto di mantenere lo stesso equilibrio tra stati nazionali e istituzioni europee sulla cui base sono stati scritti i Trattati in vigore e si è creato il consenso all’adesione dei nuovi membri.  Ora è in corso, a detta del primo ministro magiaro, una rottura di questo equilibrio attraverso una prassi che, al limite della conformità con i Trattati, attua progressivamente e in modo furtivo (lopakodó) una politica federalista. Ciò avviene con l’approvazione di progetti volti a disciplinare sfere di competenze originariamente affidate agli stati nazionali e tali da alterare gli equilibri predefiniti e accettati dall’Ungheria nel 2004. Orbán non accetta che questo trasferimento di competenze avvenga in maniera latente e poco chiara anche perché egli ribadisce di essere pronto a qualsiasi confronto che abbia come oggetto la ridefinizione dello status-quo ma su di un piano di parità con gli altri stati membri e sulla base di regole unanimemente riconosciute e di trattative aperte. Diversamente nessuno può esaminare, valutare e formulare raccomandazioni in ambiti di stretta pertinenza nazionale. Tantomeno è accettabile alcun tentativo furtivo di modifica dei Trattati che aprirebbe solo le porte al ”doppiopesismo dei più forti e all’impero burocratico di Bruxelles”.  
A suffragare infine l’impegno ungherese nell’ adempimento dei suoi obblighi comunitari il premier ricorda due dati: l’adattamento del diritto interno alla produzione normativa dell’UE che risulta perfettamente nella media europea e l’applicazione delle sentenze della Corte Di Giustizia per cui l’Ungheria fa tre volte meglio degli altri. Prima di chiudere Orbán sottolinea come egli non sia l’unica voce fuori dal coro. E’ in compagnia del governo olandese che, nonostante guidi un paese membro fondatore, sta lavorando per presentare a livello comunitario  un rapporto sulla sussidiarietà (già sottoposto al proprio parlamento) basato sul principio “Europa dove necessario, nazionale dove possibile” nel quale si esprime l’esigenza di lasciare agli stati determinate materie. L’invito finale fatto ai ”suoi” ambasciatori è di adoperarsi per allargare le possibilità economiche del paese e di difendere la sovranità nazionale in  un contesto internazionale profondamente conflittuale e in cui l’Ungheria ha necessità di apparire ”forte, orgogliosa e sicura di sè”.

La relazione è stata seguita da un momento più interattivo in cui il primo ministro ha risposto alle domande degli ambasciatori. Viktor Orbán ha potuto così toccare anche altri temi di politica estera come i rapporti con la Russia. Riguardo a questo egli ha spiegato che l’UE non ha alternative ad una sempre più intensa cooperazione con Mosca specie se desidera tenere il passo in tema di competitività economica. Ha anche fatto presente che il vero problema con la Russia non è tanto la democrazia quanto la necessità di tenere unito questo immenso paese. In più anche l’Europa centrale è chiamata ad affrontare con maturità ed a valutare nel lungo termine i benefici strategici di una simile relazione anche se questo può suonare strano guardando la storia del secolo scorso. Con la domanda del capo-missione della sede parigina si torna a parlare di Unione ed in particolare di adesione ungherese alla moneta comune. Orbán chiarisce un concetto da lui più volte espresso che non lascia spazio ad ulteriori considerazioni: l’Ungheria adotterà l’euro quando il reddito pro-capite magiaro costituirà almeno il 90% del reddito pro-capite dei paesi dell’eurozona, cosa che sicuramente non capiterà, fa intendere il premier, nel prossimo decennio. In platea c’è anche l’ex ministro degli esteri e politico socialista di lunga data László Kovács che pone la questione dei rapporti con gli USA che Orbán definisce eccellenti nei settori più delicati come le relazioni economiche e la cooperazione in campo militare e di servizi segreti. Tuttavia tra Ungheria e USA intercorrono forti divergenze ideologiche come nelle politiche sociali e sulla famiglia. Spesso capita poi che da oltre-oceano vengano opinioni sulle norme ungheresi. “L’America - ha ribadito Orbán - deve accettare che i deputati eletti dal popolo ungherese decidono liberamente” e non necessariamente in modo conforme a come la pensa Washington.
Il ministro degli esteri János Mártonyi

Il ministro degli esteri János Mártonyi nel suo intervento ha posto principalmente l’accento sulla politica regionale dell’Ungheria pur non tralasciando i rapporti con Bruxelles che, eccezion fatta per l’approvazione del documento politico che porta anche il nome di “rapporto Tavares”, sembrano avviati alla normalizzazione. Mártonyi ricorda ai diplomatici come negli ultimi tre anni siano migliorate le relazioni con i paesi confinanti. Questo grazie al costante impegno di costruzione della fiducia e reciproca, un obiettivo da cui non si può prescindere e i cui risultati si vedono ad esempio nei rapporti con la Serbia. Il paese balcanico ha di recente fatto passi importanti verso il riconoscimento dei diritti collettivi delle minoranze nazionali e la visita di fine giugno scorso del capo dello stato ungherese János Áder a Belgrado ha sugellato questo nuovo corso. ”Il governo non ha mai voluto passare sotto silenzio le gravi questioni aperte – ha detto Mártonyi – ma il più delle volte la soluzione migliore sta nel non alzare i toni”.  Più proficua è la collaborazione con paesi limitrofi e dell’Europa centrale più favorevoli saranno anche le condizioni per il miglioramento della situazione degli ungheresi che vivono oltre-confine.   Il responsabile della politica estera dell’esecutivo ha infine richiamato la continuità che i governi di centro-destra hanno dimostrato fino ad oggi nella politica delle nazionalità a partire da József Antall, che amava definirsi in cuor suo ”primo ministro di 15 milioni di ungheresi”. Stessa direzione per il primo governo Orbán, autore della contestata legge sullo ”status” (státustörvény), e per l’attuale gabinetto che con un consenso nazionale pressoché unanime ha reso più semplici le procedure per l’acquisizione della cittadinanza  ungherese e in quest’ultimo caso, Slovacchia a parte, sembra che la decisione non abbia suscitato particolari tensioni. Cenno inevitabile poi al fatto che all’Ungheria spetti al momento la guida contemporanea del Gruppo di Visegrád e dell’ Iniziativa Centro Europea.

fonti: kormany.hu, hirado.hu, nol.hu