domenica 27 aprile 2014

ANALISI POST-VOTO: L’UNGHERIA E’ DI NUOVO ORBÁN


Soffiate nei corni, sellate i cavalli, perché domani mattina partiamo”. Era il 16 febbraio 2014. Viktor Orbán chiudeva così il suo annuale discorso sullo stato della nazione. Con il lessico epico delle grandi occasioni cui ci ha da tempo abituato chiamava idealmente a raccolta tutti i suoi elettori. C’era da sferrare l’assalto finale agli ultimi cinquanta giorni di campagna elettorale. C’era da rinvigorire l’entusiasmo del popolo arancione del suo Fidesz. C’era da convincere gli indecisi a riconfermare la stessa maggioranza, quella maggioranza dei due terzi del parlamento con la quale sta plasmando il paese a partire dalla vittoria alle politiche del 2010, l’anno - come spesso ricorda il premier - del nuovo cambio di regime (rendszerváltás). Orbán non ha vinto le elezioni. Ha stravinto e ricomincia da dove aveva lasciato. Con quella maggioranza dei due terzi che, come ha dichiarato di recente, ”sarebbe più di una semplice legittimazione e aprirebbe nuovi orizzonti al punto da far immaginare che noi ungheresi siamo veramente capaci di tutto”. Come ha scritto Ildikó Csuhaj su Népszabadság non avrebbe in realtà fatto molta differenza per Orbán il poter disporre o meno di una maggioranza qualificata.

Durante la legislatura che si è appena conclusa sono state già poste solide premesse per la realizzazione del sistema di Orbán. Una nuova Costituzione  insieme a tutta una serie di modifiche successive volte a blindare nella legge fondamentale i capisaldi di un programma politico, dalla condanna del comunismo e dei suoi eredi al modello di famiglia basata sul matrimonio tra uomo e donna. Una nuova legge elettorale e la riforma dei regolamenti parlamentari. La  trasformazione della disciplina dei media e dei rapporti tra stato e confessioni religiose. Un insieme di interventi incisivi dunque, senza trascurare tutti gli uomini in quota Fidesz eletti a ricoprire le principali cariche istituzionali dalla Presidenza della repubblica, alla Banca Nazionale, dalla Corte dei Conti alla Procura generale. Manca ancora una cosa però. E Orbán non ne fa un mistero, è il suo credo politico che ha ribadito anche alla vigilia del voto:”Ho costruito - ha dichiarato in un’intervista al Magyar Nemzet - la piccola comunità di partito del Fidesz radicale e anti-regime (comunista ndr), poi, con l’aiuto dei circoli civici, la grande comunità della destra di ispirazione popolare, e da quando siamo al governo lavoro alla costruzione di una comunità nazionale che comprenda in sè anche la sinistra”. Supera l’appartenenza politica Orbán e supera anche i confini.”Egy az ország”, Uno è il paese. Questo era lo slogan della manifestazione di chiusura della campagna elettorale del Fidesz. Uno è il paese e Viktor Orbán ne è l’incarnazione. O almeno questa è la sua ambizione. Ed è stato premiato dagli ungheresi.

Troppo ampio il vantaggio per pensare che media più imparziali, circoscrizioni elettorali non ridisegnate ed una percentuale più alta di affluenza alle urne potessero ribaltare il risultato. A colpire non sono tanto i 20 e i 25 punti di distacco dati a socialisti ed estrema destra quanto i 40 che separano il Fidesz da LMP,”La Politica può essere diversa”, piccolo partito ecologista, alternativo, non legato ai vecchi schemi destra-sinistra. Segno questo di una profonda adesione dell’elettorato all’operato del governo e cosa non proprio scontata se si considera che in un paese come l’Italia, ad esempio, un movimento di protesta che fa dell’anti-politica il suo programma rischia di diventare il secondo partito. Ad eccezione forse solo di Giustizia e Sviluppo di Erdogan in Turchia,  Fidesz è il partito più votato in Europa. Il primo a congratularsi con Orbán è stato il presidente della Commissione europea Barroso. Non che il presunto antieuropeismo del primo ministro magiaro avesse bisogno di gesti del genere per essere smentito. La Merkel, Cameron e altri hanno fatto lo stesso. Il voto ungherese riconferma il leader del Fidesz tra i 17 capi di stato e di governo che vanta il Partito popolare europeo. Ed è stato il presidente del PPE in persona, Joseph Daul, a tessere elogi ad Orbán una settimana prima del voto in una Piazza degli Eroi gremita di sostenitori del premier, incassando  - cosa non meno importante - un consistente pacchetto di voti per il suo partito alle prossime europee.


Non è più tanto sconosciuto Viktor Orbán e forse l’”occidente” è chiamato a riconsiderare la qualifica di leader nazionalista-estremista spesso attribuitagli anche perchè in Ungheria questo binomio appartiene a chi è più a destra di lui, lo Jobbik, contro cui proprio il Fidesz costituisce un argine alla crescita. I due terzi del resto mettono definitivamente al riparo la maggioranza parlamentare arancione da pericolose alleanze. Insieme al suo premier anche l’Ungheria inizia a far parlare di sé. E se ne parla bene. Che non sia una potenza economica è noto. Che non aspiri a diventarlo è altrettanto noto. In un anno però il tasso di disoccupazione ha perso più di due punti e il trend è in ulteriore discesa. Rispetto al febbraio 2013 poi la produzione industriale magiara è cresciuta dell’8,2%. Hanno fatto meglio solo Slovacchia e Romania. Questo è in linea con un obiettivo ben preciso di Orbán che vuole l’Ungheria manifattura d’Europa. In tempi di crisi segni positivi davanti agli indicatori economici sono merce rara e gradita. Altri quattro anni serviranno a capire se sempre più ungheresi godranno dei benefici di una politica economica divisa tra autosufficienza ed interdipendenza. Poi Orbán, vecchio politicamante ma non anagraficamente, lascerà la scena. O forse no. Magari rivivrà sotto altre specie istituzionali e solo allora sapremo quanto è facile pensionare i politici sulle sponde del Danubio.




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