Nel novembre del ’56 lo scrittore e poeta ungherese Sándor Márai torna in Europa dagli Stati Uniti dove si era trasferito già quattro anni prima. Quando scrive dell’Italia nelle note del suo diario che riportiamo di seguito, l’intervento di “normalizzazione” delle truppe sovietiche in Ungheria è cominciato già da una decina di giorni. L’Armata rossa ha varcato in forze i confini magiari e la rivoluzione di ottobre è di fatto fallita.
Napoli, 15 novembre. L’aereo viaggiava alto sulle Alpi nella luce della luna piena. In basso le Alpi risplendevano di blu, innevate. A Napoli lo scirocco. Per le strade automobili con altoparlanti e folle. Tutti gridano: “Ungheria, Ungheria!”. Questo grido risuona sotto il Vesuvio, nel porto. Grande folla nella chiesa di Via Brigida. Il prete, a braccia aperte, esclama: “Ungheria!” e “…mortificazione…”. Tutti abbassano la testa. Molti nascondono le facce nel palmo delle mani.
Roma, 16 novembre. Z. - diplomatico, italiano – dice:”Non creda a questi manifesti: alle dichiarazioni da lacrime di coccodrillo dell’intellighenzia comunista che fa mea culpa. I comunisti gioiscono per quello che succede ora in Ungheria”. Parla nervosamente. Conosce molto, ha visto molto. “I pericoli sono grandi, perché nessuno può permettersi...nè i russi, nè gli ungheresi… Da situazioni disperate possono originare solo conseguenze disperate”. E ancora: “L’Ungheria ora avrebbe bisogno di uno statista che sappia contrattare. Non di un Garibaldi, ma di un Cavour”.
Due brani, poche parole e qualche gesto per esprimere un concetto, uno stato d’animo, un atteggiamento che definire colpevole forse è sbagliato: l’ipocrisia del non-intervento. Nella politica ovvero nella storia il concetto di colpa è molto relativo, approssimativo. Nella dialettica tra gli stati poi, quello che è giusto lo decide il forte, il vincitore, un solido quanto temporaneo blocco di alleanze.
Nella parte democratica dell’Europa, quella che geograficamente incarna insieme all’alleato americano l’ “Occidente” inteso come sistema di valori costituiti, i dibattiti sulla situazione internazionale e sui “fatti d’Ungheria” dividono, lacerano, scuotono le coscienze di tutti. In primis quelle dei politici. In Italia ad esempio, la compattezza del Partito comunista è attraversata dalle posizioni “pericolose” di chi, in netta minoranza, condanna la nuova invasione sovietica. I tank russi per le strade di Budapest sono il cinico prezzo da pagare per preservare una comunione di intenti ideologica col paese, l’Unione sovietica, che più di ogni altro rappresenta la forma statale e istituzionale del socialismo, il modello da seguire. Lo stesso cinismo tuttavia appartiene a chi quel modello lo combatte sul piano politico ed economico e che non vuole correre il rischio che il confronto si trasformi in scontro bellico. In troppi sono già morti per Danzica e morire per Budapest ora non sarebbe lo stesso, non sarebbe giustificato. In gioco c’è un equilibrio fragile ma stabile, il mondo bipolare uscito dal secondo conflitto mondiale che né piccoli né grandi focolai possono minacciare. Ovunque essi siano vanno spenti.
La mortificazione, la testa bassa, i volti nascosti tra le mani di cui scrive Márai sono probabilmente il segno di una coscienza che nonostante tutto esiste, una coscienza che riconosce, seppure nell’impossibilità di intervenire e nell’ipocrisia dell’inazione, il senso della lotta rivoluzionaria intrapresa dai pesti srácok, quei ragazzi di Pest che si ribellano ad un sistema che li opprime e che ammazza la loro libertà. I ragazzi di Pest non hanno troppo tempo per dibattere di coerenze ideologiche e di sistemi politici. Sono soli di fronte ad un destino segnato e inevitabile.
Soli ma determinati perché, come lo stesso Márai dirà in una composizione dedicata proprio ai fatti del 1956, ”dal sangue sorge sempre nuova vita”.
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Anche quest'anno il Governo ha allestito un sito web dedicato dove è possibile consultare il programma ufficiale delle commemorazioni nonchè altre notizie storiche sulla rivoluzione del 1956.
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