mercoledì 23 ottobre 2013

23 OTTOBRE...IN MEMORIA DELLA RIVOLUZIONE DEL 1956

La bandiera ungherese priva dello stemma sovietico centrale
Oggi, 23 ottobre, l’Ungheria ricorda una pagina molto significativa della sua storia. La rivoluzione del 1956. Il ricordo è insieme orgoglioso e funesto. L’impeto rivoluzionario di un popolo unito sotto le insegne della libertà, l’animo pervaso dalle speranze di un futuro migliore, lo spirito creativo ed allo stesso tempo incurante del pericolo di tanti giovani, tutto soffocato nel fumo dei tank sovietici. I liberatori di un tempo divenuti carnefici. L’Occidente a interrogarsi e a indignarsi, inerte come la comunità internazionale e le sue istituzioni forse perchè distratte dalla crisi di Suez, forse perchè già decise ad immolare le sommosse popolari nel campo socialista sugli altari della pax e dell’equilibrio tra i due blocchi. Questo il senso di un evento, questo il senso di un segnale premonitore, il primo scricchiolio di un sistema che già dimostrava, nonostante l’imponenza, tutta la sua vulnerabilità.  In quegli anni l’illusione del cambiamento viene proprio da Mosca. Il XX congresso del PCUS con Krusciov promotore di un nuovo corso affrancato dagli eccessi praticati da Stalin sembra essere il preludio di una “democratizzazione” generalizzata del sistema socialista. Ma sono proprio i fatti ungheresi dell’ottobre del ’56 a confermare che ogni apertura presunta o reale non prescinde dalla status quo del blocco sovietico da preservare assolutamente.
 
Il vento rivoluzionario soffia prima in Polonia e inaspettatamente parte da quella che è la figura sociale su cui si fonda tutta la dottrina socialista: l’operaio. L’operaio contro il sistema che lo venera e difende. È proprio dalle fabbriche di Poznan che si scende in piazza per chiedere condizioni lavorative e di vita piú accettabili. Il ristabilimento dell’ordine è affidato alle forze di sicurezza e all’esercito che spara sulla folla.
Si abbatte la statua di Stalin
Quanto basta perchè in Ungheria si solidarizzi con i polacchi e si  costruisca al tempo stesso la risposta ungherese alle oppressioni del regime sovietico. Il nucleo della rivolta è il movimento studentesco che riunisce ragazzi delle superiori e delle universitá ed ha il suo quartier generale al Politecnico (Műegyetem) sulla riva del fiume Buda. Qui durante tutta la giornata del 22 le assemblee si susseguono fino a notte e si mettono  per iscritto le richieste che rappresentano la volontá di un intero popolo. Sono i cosiddetti sedici punti (tizenhat pont). Inutile dire che ciascun punto singolarmente preso e singolarmente soddisfatto avrebbe effetti devastanti per gli equilibri interni e internazionali dell’Ungheria e dell’intero blocco emanazione di Mosca. Si richiede ad esempio l’uscita dal paese delle truppe russe, la regolazione delle relazioni magiaro-sovietiche sul piano della paritá e del principio della non ingerenza con un esplicito richiamo alla Carta delle Nazioni Unite, libere elezioni con voto segreto e con la partecipazione di tutti i partiti. In sostanza una rivoluzione. Il 23 è il giorno del popolo in strada che da una piazza all’altra si raccoglie e cresce, dalla statua del poeta della libertá e dell’indipendenza magiara Sándor Petőfi a quella di Jozsef Bem, tra i protagonisti militari dei moti del 1848. Qui dalla bandiera ungherese viene rimosso lo stemma sovietico  e da questo momento il tricolore bucato al centro diventa il vessillo della rivoluzione. Le folle muovono verso la sede della Radio Ungherese pubblica (Magyar Rádió) con l’intento di proclamare i sedici punti ma il palazzo è blindato dalle forze di sicurezza dell’ÁVH. Tra le ormai decine di migliaia di manfestanti il malcontento cresce e si trasforma in tumulto quando alle otto di sera il segretario generale del partito comunista, Ernő Gerő, proprio dalla radio definisce la folla riunita semplice “plebaglia”. La statua di Stalin che campeggia sulla piazza viene abbattuta e parte l’assalto all’edificio della radio. Gli uomini dell’ÁVH sparano, uccidono. 
 
 
L'esercito fraternizza con i manifestanti
 
 
A scongiurare che la rivolta perda il suo carattere nazionale e si trasformi in una guerra civile sono i soldati dell’esercito ungherese che fraternizzano col popolo fino al punto di armarlo e supportarlo. Gli scontri armati tra i rivoltosi e le truppe sovietiche di stanza nel paese che provano a resistere insieme ad elementi dell’ÁVH  si moltiplicano su tutto il territorio nazionale e durano giorni. Mosca nel frattempo prova a tenere sotto controllo gli effetti della rivolta sperimentando il modello polacco dove la dirigenza stalinista era stata sostituita con Wladyslaw Gomulka figura capace di evitare l’intervento militare regolatore dall’URSS e artefice della “via polacca al socialismo”. Pertanto alla guida del governo e del partito vengono posti rispettivamente Imre Nagy e János Kádár. Le divergenze tra i due con il secondo piú propenso all’ascolto delle istanze sovietiche condizionano molto il corso degli eventi. Il capo del governo Nagy lavora per la pacificazione interna mediando il ritiro dei russi dall’Ungheria insieme al cessate il fuoco. La rivoluzione in tal modo non trova ostacoli al suo compimento e per bocca dello stesso Nagy assume sempre piú le connotazioni di un movimento democratico. Si è piuttosto di fronte alla ”via ungherese alla democrazia” quanto di piú inaccettabile per il Cremlino. Una via d’uscita pacifica ”alla polacca” non è piú possibile. Il latente operato di Kádár e i viaggi di Krusciov a Belgrado e a Bucarest preparano il terreno all’intervento dell’Armata Rossa che invade l’Ungheria con piú di 200.000 uomini e 4000 tank nelle prime ore del 4 novembre. Queste le parole pronunciate da Imre Nagy alla Radio alle 5:20 del mattino:
 
"Itt Nagy Imre beszél, a Magyar Népköztársaság minisztertanácsának elnöke. Ma hajnalban a szovjet csapatok támadást indítottak fővárosunk ellen azzal a nyilvánvaló szándékkal, hogy megdöntsék a törvényes magyar demokratikus kormányt. Csapataink harcban állnak. A kormány a helyén van. Ezt közlöm az ország népével és a világ közvéleményével!"
 
"Qui parla Imre Nagy, presidente del consiglio dei ministri della Repubblica Popolare Ungherese. All’alba di oggi le truppe sovietiche hanno attaccato la nostra capitale col chiaro intento di abbattere il governo legale e democratico magiaro. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo al popolo del nostro paese e all’opinione pubblica mondiale".
Dopo solo due ore, alle 7:14 dalle stesse frequenze un comunicato che invita i militari sovietici ad evitare il bagno di sangue si conclude così:
 
"Az oroszok barátaink, és azok is maradnak!"
"I russi sono nostri amici e tali rimangono!".
 
La rivoluzione è sconfitta.
 
 
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Fonti: kormany.hu, magyarforradalom1956.hu (per le foto)
 
 
 

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