mercoledì 4 dicembre 2013

BERLUSCONI CAPOLISTA IN UNGHERIA? FANTA-POLITICA E FANTA-REAZIONI

L'ex-premier italiano Silvio Berlusconi e il premier ungherese Viktor Orbán
Silvio Berlusconi candidato alle prossime elezioni europee (anche) in Ungheria. La notizia è di ieri. La smentita del diretto interessato è di oggi. 
Diciamo subito che l’ipotesi è stata oggetto più delle ilarità dei social network che delle analisi di giuristi e politologi. Noi siamo tra quelli che non possono passare la cosa sotto silenzio pur relegandola nella categoria del fantastico.  Riportiamo a tal proposito due reazioni magiare, una reale ed una potenziale, a questa possibilità di cui ha scritto per la prima volta martedì Repubblica in un articolo, “La tentazione ungherese di Berlusconi”, firmato Carmelo Lopapa (leggi qui).  

Partiamo da quella reale: "La notizia non ha alcun fondamento ma almeno è divertente" è stata la dichiarazione di Máté Kocsis, responsabile della comunicazione del FIDESZ, il partito di destra ora al governo, che avrebbe dovuto candidare con ogni probabilità il Cavaliere. La reazione potenziale, forse un po' forzata da parte nostra anche perchè pronunciata in un contesto diverso ma tutto sommato pertinente, è quella che invece troviamo più significativa. “Io sono convinto che il posto adatto per chi evade le tasse è la galera e contro gli evasori bisogna porsi nel modo più duro possibile”.  Le parole (leggi qui) sono di Viktor Orbán, proprio lui, il primo ministro ungherese, in risposta ad un’interrogazione parlamentare di lunedì,  il giorno prima dunque che ”scoppiasse” il caso-candidatura-europea.  A cosa si riferisse Orbán lo vedremo in un nostro prossimo intervento. Quello che sappiamo per certo è che “l’ultranazionalista di destra” non si riferiva al suo ”amico” italiano (i virgolettati sono di Lopapa).  

Non è nostro obiettivo giudicare la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha condannato l’ex-premier italiano per frode fiscale, così come non è nostro oggetto di analisi la presunta “politicizzazione” di parte della magistratura italiana negli ultimi vent’anni. Ci incuriosisce però immaginare come Orbán si sarebbe posto di fronte ad una fondata ed eventuale proposta di candidatura di Silvio Berlusconi in Ungheria alla luce della ferma posizione anti-evasione assunta nel citato question time. L’impressionante contiguità temporale dei fatti ha semplicemente stuzzicato la nostra fantasia. Quello che ci resta alla fine è solo l’intransigenza di una dichiarazione ed una notizia che è stata tale per poco più di un giorno.

domenica 10 novembre 2013

PESTI SRÁCOK BUDAI SRÁCOK...CRONACA DI UNA GIORNATA TRA BUDA E PEST RICORDANDO IL ‘56

L'aiuola di fronte al monumento di Imre Nagy a piazza Vértanuk
Il nostro 23 ottobre (di cui abbiamo già parlato qui) comincia a mezzogiorno e abbiamo un obiettivo ambizioso. Sfidare l’ubiquità. Seguiremo le tre manifestazioni in programma tra Buda e Pest: alle 13.30 lo Jobbik è a piazza Deák Ferenc, alle 14 l’opposizione di sinistra incontra tutti i suoi leaders presso il lungofiume, altezza Politecnico (Műegyetem), alle 16 il discorso del primo ministro chiude le celebrazioni ufficiali del governo in Piazza degli Eroi. L’impresa non è semplice ma nemmeno impossibile. La giornata è bellissima e il meteo promette temperature tardo-primaverili. Il kit d’assalto prevede carta, penna, smartphone e....pogácsa (rustica prelibatezza magiara ottima per placare la fame). Un ultimo sguardo al sito dei trasporti urbani BKK per studiare la mappa del traffico di questa Budapest festiva e blindata. Si parte. Il giro comincia dal cuore del XII distretto, Farkasrét. Nell’attesa del tram 59, il tram della nostra infanzia ungherese, brevissima sosta all’edicola. Quanto basta per accorgersi che in città saranno prove generali di campagna elettorale in vista del voto della prossima primavera. I titoli di Magyar Nemzet e Népszabadság  parlano infatti dell’ultimo scivolone targato MSZP. Un video falso commissionato (pare dai socialisti) per avvalorare quelle irregolarità compiute a loro volta dal FIDESZ e che hanno portato alla ripetizione del voto nella circoscrizione 32 alle ultime suppletive della città di Baja. Insomma botta e risposta al limite del lecito in una circoscrizione di qualche centinaio di anime che nelle ultime settimane sembra essere il centro del mondo.  Fatte le dovute proporzioni, visto il clamore generato, modello Florida 2000.
Bandiere alla manifestazione dello Jobbik a piazza Deák Ferenc

Giusto il tempo di una riorganizzazione mentale del nostro tragitto ed i pannelli pubblicitari della metro di piazza Széll Kálmán (la vecchia Moszkva tér), aggiornati a dovere, ci riportano con la mente al 1956 ed al senso della giornata odierna. Due minuti e siamo già a Pest dove la prima tappa è all’angolo di piazza Kossuth Lajos. Mimetiche, anfibi, molte divise e anche qualche testa rasata. Tutto questo ai piedi del  palco dello Jobbik (formazione di estrema destra) dove campeggia un motto non proprio europeista  “Tagok legyünk vagy szabadok?” “Vogliamo essere membri o liberi?”.  Mentre enormi casse diffondono le canzoni del gruppo rock-metal-nazionalista Kárpátia le truppe si radunano e si dispongono in file sotto i vessilli bianchi e rossi della dinastia Árpád. Stile decisamente militare dunque per un partito la cui élite militante è raccolta nella Új Magyar Gárda, la Nuova Guardia Magiara erede della Magyar Gárda, Guardia Magiara, sciolta su sentenza di un tribunale di Budapest  nel 2009. Il salto indietro nel tempo è notevole. Lo si capisce anche dal banchetto dei gadgets dove si vendono polsini e adesivi dell’Ungheria pre-Trianon insieme a volti di un giovane ammiraglio Horthy.  La statua di Imre Nagy, il protagonista politico del ’56, osserva l’adunata che di lì a breve muoverà verso Deák Ferenc dove siamo diretti per la nostra seconda tappa.
Ferenc Gyurcsány sul palco dell'opposizione al Politecnico

Ci ributtiamo nella metro seguendo il percorso obbligato dalle transenne dell’immenso cantiere che si estende all’ombra del Parlamento dove tra cumuli di terriccio gru e pale meccaniche riposano ferme nel silenzio di questo giorno di festa. Riemergiamo sotto il controllo meticoloso ma discreto della polizia dove si incontrano ancora gruppetti di gárdisták (guardie dello Jobbik) in attesa del grosso delle truppe. Siamo ancora nei tempi e ci concediamo un salto al civico 60 di via Andrássy  dove già dalla mattinata si può rendere omaggio ai caduti della rivoluzione le cui foto segnano ad altezza d’uomo il perimetro della Terror Háza, il massiccio edificio in cui i regimi del XX secolo hanno rinchiuso e torturato migliaia di ungheresi. Il boulevard Andrássy chiuso ormai al traffico all’altezza dell’Oktogon si popola lentamente. Giovanissimi volontari si dividono i compiti e soprattutto le bandierine tricolore da distribuire a chi confluirà qui per il discorso di Viktor Orbán. Diversi i maxischermi e gli impianti acustici giá attivi. La tv pubblica allestisce le sue postazioni. Troppo semplice per noi fermarci e aspettare qui con calma. Sta per cominciare la manifestazione delle “sinistre” al Politecnico. E’ quello ora il nostro obiettivo dunque direzione Buda. A Deák Ferenc, sempre più baricentro del nostro tour, ci rendiamo conto che non sarà una passeggiata. Ce lo conferma il 49, tram dai vagoni ancora old-style per l’occasione rigorosamente decorati a festa con i tricolori, stracolmo di viaggiatori quasi tutti con la nostra stessa meta. Arrivati al ponte della Libertà c’è gente che resta a terra nelle fermate. Il tram ormai saturo quasi non riesce più a ripartire, la motrice slitta sulle rotaie senza avanzare mentre qualche anziano si chiede se saranno di più quelli di Orbán o quelli dell’opposizione. Sul ponte l’afflusso dei manifestanti ormai anche a piedi è notevole. Si intravede già il palco sulla riva opposta ed il colpo d’occhio è interessante anche a distanza. Scendiamo al Gellért e raggiungiamo la platea attraverso l’unico varco possibile e nell’unico modo possibile, facendo fila indiana.

Viktor Orbán parla a Piazza degli Eroi

La folla dei fans del kormányváltás (cambio di governo) si estende lungo il Danubio per 300 metri. Predominante è il colore rosso delle bandiere socialiste dell’MSZP. Ma ci sono tutti. I liberali, i democratici, i banchetti di Együtt 2014, i movimenti. Qui di Trianon o di Székelyföld (terra di magiari in territorio rumeno) non c’è traccia. In compenso c’è la bandiera europea, pezzo molto raro nelle piazze ungheresi degli ultimi anni. I cartelli recitano ”Democrazia NON Teocrazia”, ”Costituzione Secolare”. La location è evocativa. Da qui partirono i cortei studenteschi che nel ’56 coinvolsero tutta la nazione. Il nemico di allora i sovietici. Il nemico di oggi  Orbán. Il motto è suggestivo: “A szabadság összeköt” ”La libertà unisce”. Il popolo della sinistra c’è e attende al microfono i suoi leaders. Le video-testimonianze del poliziotto in difficoltà, della maestra che non arriva alla fine del mese, del tabaccaio cui è stata tolta la licenza riscaldano gli animi. Tiepida invece la partenza di Gordon Bajnai, ma è carattere. E’ lui il primo iscritto a parlare. Lui che proprio oggi festeggia un anno di vita di Együtt 2014 (Insieme 2014), la sua creatura politica. “Orbán dirige il paese diritto contro l’iceberg” e si rumoreggia contro il ”regime”. Si ironizza su Felcsút paesino dove Orbán è cresciuto e che per Bajnai  è una “Disneyland privata col suo nuovo stadio, con la sua nuova ferrovia”. L’ex-primo ministro articola i suoi tre obiettivi: “kormányváltás (cambio di governo), korszakváltás (cambio di epoca), jó kormányzás (buon governo)”.”Orbánország vagy Magyarország” “Orbán e il suo stato oppure l’Ungheria”, questa è la scelta da fare nel 2014. Questo il gioco di parole con cui Bajnai esalta tutti. Poi l’invito conclusivo è quello di alzare al cielo lo strumento, invenzione ungherese, con cui “in sole due mosse l’anno prossimo si manderà il governo a casa”: la penna a sfera. Tripudio. A mantenere carichi gli umori ci pensano due vecchie glorie degli anni novanta, ringiovaniti e ri-discesi in campo: Gábor Kuncze e Lajos Bokros.  I toni non sono proprio pacatissimi. “Il governo Orbán mafioso” si sconfigge con “i fatti e non con i piagnistei” spiega lo storico leader dei liberi-democratici. “Un partito - incalza poi Bokros - che aumenta le tasse, nazionalizza, ostacola l’impresa privata, intimorisce gli impiegati pubblici e diffonde ovunque il controllo statale non è di destra ma è neo-comunista ed i neo-comunisti non sono democratici”.  Il lessico anti governativo abbonda ma i due “veterani” toccano un altro tema molto ricorrente in questo happening dell’opposizione: la necessità di correre insieme e di farlo con liste comuni. 

Si cantano inni patriottici in via Andrássy
Ed è proprio sulla dura autocritica (ma anche molta critica) che costruisce il suo discorso Ferenc Gyurcsány. L’unico a dimostrarsi capace di infiammare ed entusiasmare le masse anche oltre i propri rumorosissimi attivisti, l’unico ad avere il carisma giusto per permettersi  di poter fare il bastian contrario senza essere per questo fischiato. Ricorda il passato, “ben due volte ho preso parte alla sconfitta di Orbán”, non tralascia il presente,”è una bugiarda canaglia a guidare il paese”, mette in guardia sul futuro,”se si continua così si perde”. Ed è da qui in poi che i destinatari nascosti del messaggio di Feri, come lo chiamano i suoi, diventano Mesterházy e Bajnai freschissimi di un accordo elettorale tanto tormentato nella gestazione quanto debole nelle sue clausole, utile a spartirsi i collegi uninominali ma ancora inconcludente sulla questione della candidatura alla carica di capo del governo. Gyurcsány, da parecchio sostenitore di una opposizione unita in maniera organica, mette a nudo gli ostacoli a questo progetto, al suo progetto: “i tatticismi, le ambizioni personali, la faziosità”. La vittoria ha una sola ricetta,“un programma comune, un candidato premier comune, candidature comuni”. ”L’opposizione - dilaga il capo di Demokratikus Koalíció (Coalizione Democratica) - ha bisogno di una guida, non due, tre, otto”. Parole sufficienti  a rovinare un tantino l’intervento di chiusura del presidente dei socialisti Mesterházy che sapremo ex-post essere stato ripetutamente disturbato da qualche indisciplinato (o forse ben ammaestrato) tifoso di Gyurcsány. Riascolteremo il discorso del capo dell’MSZP in differita perché il nostro racconto non finisce qui sotto la facciata del Politecnico. Lasciamo le moltitudini anti-governative per raggiungere quelle filo-governative quando è il turno del liberale Gábor Fodor che continua sulla stessa linea di chi lo ha appena preceduto.

Si accendono candele lungo via Andrássy

Da questo momento abbiamo 40 minuti d’orologio prima che parli Orbán. Circoscriviamo l’isolato del Politecnico e il fedele 49 ci riporta a Pest. In piazza Deák i vessilli dello Jobbik sono ancora tutti al vento e un deputato, Dániel Kárpát, tuona contro le banche:”Hanno derubato tutti!”. Dalle spalle della Basilica di Santo Stefano a Piazza degli Eroi ci separano ora ”solo” i due chilometri di via Andrássy ma la comunicazione di servizio che ci arriva a bordo della metro leggera (la storica Földalatti) è tremendamente chiara: da Oktogon in poi si procede a piedi. Ce lo aspettavamo. Rispetto a tre ore prima il quadro è diverso. Fa più caldo, siamo più stanchi, c’è una marea di persone. Siamo nel mezzo della marcia della pace (Békemenet) partita da Buda e che ormai è nel suo tratto finale. A questo punto fare paragoni con quello che abbiamo visto fin qui è un’inutile quanto scontato esercizio.  I numeri sono diversi. Ma qui c’è la manifestazione ufficiale del governo. Qui c’è tutto il popolo di Orbán che quando si organizza arriva dalla provincia e da tutto il bacino dei Carpazi. Dal Balaton a Felvidék, da Sopron al cuore di Erdély, in jeans,maglietta e zainetto ma anche in costumi  tipici. Leggendo le centinaia di cartelli l’impressione è che non manchi nessuno: c’è il paesino, c’è la città, c’è Gemzse, c’è Debrecen. Pochi sono i giovani ma le altre piazze non hanno fatto meglio. Qui si viene ad ascoltare Orbán. Lo si scorge negli occhi di chi ha fatto tanta strada anche solo per vederlo. In più si viene per esprimere l’orgoglio di un’ungheresità che fa sfoggio di sè nei tricolori fissati persino su una semplice canna da pesca. E la cornice migliore non può che essere questa liturgia quasi kadariana allestita ai piedi del colonnato che ospita le statue bronzee dei sovrani ungheresi. Le marcette si alternano a musica tzigana  e a poesie patriottiche rivisitate e musicate in chiave moderna. L’ingresso delle bandiere storiche e l’inno nazionale preannunciano l’arrivo del premier. Quando lo speaker lo invita sul podio è giubilo generale. Partono i cori. ”Viktor, Viktor, Viktor...” E’ bolgia. E’ lui la guida, l’unico che può difendere la nazione magiara. Questo sembrano volergli dire i suoi fedeli, si perchè ormai il rapporto tra Orbán ed elettore è per molti una questione di fede. ”Tutto il mondo si toglie il cappello per commemorare le vittime del ’56” esordisce lui, ”Gloria Victis”. Il tema poi è fin troppo facile, comunismo e anticomunismo. Significati e memoria vengono articolati con la giusta dose di retorica. ”Tre volte nel secolo scorso l’Ungheria ha cacciato via i comunisti  nel ’19, nel ’56 e nell’’89.” Un pensiero doveroso va a chi è rimasto in Ungheria anche dopo la rivoluzione pensando che ”non può scappare via un’intera nazione”, quella generazione che ha sopportato ”umiliazioni, ritorsioni, frontiere chiuse ” ma che ciononostante  ”ci ha partoriti, cresciuti, educati rendendoci capaci di conquistare la libertà nell’89”. Dopo una discreta parentesi storica si passa all’attualità: ”tuttavia aver cacciato i sovietici non significa ancora essere liberi del tutto, e per questo l’anno prossimo occorre completare l’opera”.  La sfida elettorale è appena lanciata, il generale chiama a raccolta i suoi. ”Se volete mantenere quello che avete, dobbiamo ripetere l’esito elettorale del 2010. C’è bisogno di tutti, dal professore al macellaio. Siate pronti alla lotta come nel ’56. Ognuno al proprio posto. Hajrá Magyarország! Hajrá Magyarok! Viva l’Ungheria! Viva gli ungheresi!”. 
Lumini e candele sul perimetro del Terror Háza

La classica chiusura di Orbán segna anche la fine della nostra cronaca. Ci dileguiamo soddisfatti nel gradevole tepore del crepuscolo tra gruppi che spontaneamente ancora intonano con trasporto quasi commosso l’inno seclero o il Szózat del poeta Vörösmarty. E un’anziana signora è china sul ciglio della strada ad accendere la sua candela. Nell’altra mano stringe la bandiera ungherese. Gesti come questi valgono mille volte il patriottismo di facciata. Al 60 di via Andrássy le fiammelle dei lumi a quest’ora sono più forti. Si moltiplicano di secondo in secondo. Ci suggeriscono una cosa. Oggi la parola più usata tra Buda e Pest è stata ”libertà”. E’ stata declinata in mille modi a servizio della storia, della politica, della propaganda. C’è chi invece è morto per una libertà, la sola che in vita non ha mai ottenuto. 







La galleria fotografica completa che accompagna la lettura e i momenti dell’articolo è disponibile qui sul profilo facebook del blog


Post Scriptum: il nostro più sentito ringraziamento va al BKK, i trasporti pubblici di Budapest che non smentendo la rinomata professionalità e precisione ci hanno consentito di essere dovunque in tempi brevissimi.
 

mercoledì 23 ottobre 2013

23 OTTOBRE...IN MEMORIA DELLA RIVOLUZIONE DEL 1956

La bandiera ungherese priva dello stemma sovietico centrale
Oggi, 23 ottobre, l’Ungheria ricorda una pagina molto significativa della sua storia. La rivoluzione del 1956. Il ricordo è insieme orgoglioso e funesto. L’impeto rivoluzionario di un popolo unito sotto le insegne della libertà, l’animo pervaso dalle speranze di un futuro migliore, lo spirito creativo ed allo stesso tempo incurante del pericolo di tanti giovani, tutto soffocato nel fumo dei tank sovietici. I liberatori di un tempo divenuti carnefici. L’Occidente a interrogarsi e a indignarsi, inerte come la comunità internazionale e le sue istituzioni forse perchè distratte dalla crisi di Suez, forse perchè già decise ad immolare le sommosse popolari nel campo socialista sugli altari della pax e dell’equilibrio tra i due blocchi. Questo il senso di un evento, questo il senso di un segnale premonitore, il primo scricchiolio di un sistema che già dimostrava, nonostante l’imponenza, tutta la sua vulnerabilità.  In quegli anni l’illusione del cambiamento viene proprio da Mosca. Il XX congresso del PCUS con Krusciov promotore di un nuovo corso affrancato dagli eccessi praticati da Stalin sembra essere il preludio di una “democratizzazione” generalizzata del sistema socialista. Ma sono proprio i fatti ungheresi dell’ottobre del ’56 a confermare che ogni apertura presunta o reale non prescinde dalla status quo del blocco sovietico da preservare assolutamente.
 
Il vento rivoluzionario soffia prima in Polonia e inaspettatamente parte da quella che è la figura sociale su cui si fonda tutta la dottrina socialista: l’operaio. L’operaio contro il sistema che lo venera e difende. È proprio dalle fabbriche di Poznan che si scende in piazza per chiedere condizioni lavorative e di vita piú accettabili. Il ristabilimento dell’ordine è affidato alle forze di sicurezza e all’esercito che spara sulla folla.
Si abbatte la statua di Stalin
Quanto basta perchè in Ungheria si solidarizzi con i polacchi e si  costruisca al tempo stesso la risposta ungherese alle oppressioni del regime sovietico. Il nucleo della rivolta è il movimento studentesco che riunisce ragazzi delle superiori e delle universitá ed ha il suo quartier generale al Politecnico (Műegyetem) sulla riva del fiume Buda. Qui durante tutta la giornata del 22 le assemblee si susseguono fino a notte e si mettono  per iscritto le richieste che rappresentano la volontá di un intero popolo. Sono i cosiddetti sedici punti (tizenhat pont). Inutile dire che ciascun punto singolarmente preso e singolarmente soddisfatto avrebbe effetti devastanti per gli equilibri interni e internazionali dell’Ungheria e dell’intero blocco emanazione di Mosca. Si richiede ad esempio l’uscita dal paese delle truppe russe, la regolazione delle relazioni magiaro-sovietiche sul piano della paritá e del principio della non ingerenza con un esplicito richiamo alla Carta delle Nazioni Unite, libere elezioni con voto segreto e con la partecipazione di tutti i partiti. In sostanza una rivoluzione. Il 23 è il giorno del popolo in strada che da una piazza all’altra si raccoglie e cresce, dalla statua del poeta della libertá e dell’indipendenza magiara Sándor Petőfi a quella di Jozsef Bem, tra i protagonisti militari dei moti del 1848. Qui dalla bandiera ungherese viene rimosso lo stemma sovietico  e da questo momento il tricolore bucato al centro diventa il vessillo della rivoluzione. Le folle muovono verso la sede della Radio Ungherese pubblica (Magyar Rádió) con l’intento di proclamare i sedici punti ma il palazzo è blindato dalle forze di sicurezza dell’ÁVH. Tra le ormai decine di migliaia di manfestanti il malcontento cresce e si trasforma in tumulto quando alle otto di sera il segretario generale del partito comunista, Ernő Gerő, proprio dalla radio definisce la folla riunita semplice “plebaglia”. La statua di Stalin che campeggia sulla piazza viene abbattuta e parte l’assalto all’edificio della radio. Gli uomini dell’ÁVH sparano, uccidono. 
 
 
L'esercito fraternizza con i manifestanti
 
 
A scongiurare che la rivolta perda il suo carattere nazionale e si trasformi in una guerra civile sono i soldati dell’esercito ungherese che fraternizzano col popolo fino al punto di armarlo e supportarlo. Gli scontri armati tra i rivoltosi e le truppe sovietiche di stanza nel paese che provano a resistere insieme ad elementi dell’ÁVH  si moltiplicano su tutto il territorio nazionale e durano giorni. Mosca nel frattempo prova a tenere sotto controllo gli effetti della rivolta sperimentando il modello polacco dove la dirigenza stalinista era stata sostituita con Wladyslaw Gomulka figura capace di evitare l’intervento militare regolatore dall’URSS e artefice della “via polacca al socialismo”. Pertanto alla guida del governo e del partito vengono posti rispettivamente Imre Nagy e János Kádár. Le divergenze tra i due con il secondo piú propenso all’ascolto delle istanze sovietiche condizionano molto il corso degli eventi. Il capo del governo Nagy lavora per la pacificazione interna mediando il ritiro dei russi dall’Ungheria insieme al cessate il fuoco. La rivoluzione in tal modo non trova ostacoli al suo compimento e per bocca dello stesso Nagy assume sempre piú le connotazioni di un movimento democratico. Si è piuttosto di fronte alla ”via ungherese alla democrazia” quanto di piú inaccettabile per il Cremlino. Una via d’uscita pacifica ”alla polacca” non è piú possibile. Il latente operato di Kádár e i viaggi di Krusciov a Belgrado e a Bucarest preparano il terreno all’intervento dell’Armata Rossa che invade l’Ungheria con piú di 200.000 uomini e 4000 tank nelle prime ore del 4 novembre. Queste le parole pronunciate da Imre Nagy alla Radio alle 5:20 del mattino:
 
"Itt Nagy Imre beszél, a Magyar Népköztársaság minisztertanácsának elnöke. Ma hajnalban a szovjet csapatok támadást indítottak fővárosunk ellen azzal a nyilvánvaló szándékkal, hogy megdöntsék a törvényes magyar demokratikus kormányt. Csapataink harcban állnak. A kormány a helyén van. Ezt közlöm az ország népével és a világ közvéleményével!"
 
"Qui parla Imre Nagy, presidente del consiglio dei ministri della Repubblica Popolare Ungherese. All’alba di oggi le truppe sovietiche hanno attaccato la nostra capitale col chiaro intento di abbattere il governo legale e democratico magiaro. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo al popolo del nostro paese e all’opinione pubblica mondiale".
Dopo solo due ore, alle 7:14 dalle stesse frequenze un comunicato che invita i militari sovietici ad evitare il bagno di sangue si conclude così:
 
"Az oroszok barátaink, és azok is maradnak!"
"I russi sono nostri amici e tali rimangono!".
 
La rivoluzione è sconfitta.
 
 
Clicca qui per consultare il programma ufficiale delle commemorazioni 
 
Fonti: kormany.hu, magyarforradalom1956.hu (per le foto)
 
 
 

lunedì 21 ottobre 2013

KALEIDOSCOPIO ITALIA 2013: IL MADE IN ITALY IN SCENA A BUDAPEST

La sala Giuseppe Verdi dell'Istituto Italiano di Cultura durante Kaleidoscopio
Si è chiusa alle 19 di ieri la seconda edizione di Kaleidoscopio Italia rassegna del Made in Italy organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura e che quest’anno è coincisa con la settimana della lingua italiana nel mondo patrocinata dal Ministero degli Esteri. Come è stato sottolineato nella conferenza stampa di apertura alla presenza delle massime rappresentanze istituzionali ed economiche italiane in Ungheria, Kaleidoscopio Italia è la prova di come la cultura ed il business camminano e si manifestano insieme. L’una integra e compenetra l’altra. A tal proposito l’Ambasciatore d’Italia, Maria Assunta Accili, ha spiegato la specificità del Made in Italy come di un sistema produttivo fortemente permeato dalla componente culturale, dalla tradizione e dalla creatività. Una simile rassegna, ha continuato l’Ambasciatore, è il luogo ideale dove non sono solo gli attori cosiddetti istituzionali a descrivere e a mostrare il Sistema Italia ma dove è il privato in prima persona a raccontare sè stesso. Per usare le parole del padrone  di casa, il direttore dell’Istituto italiano di cultura, Gina Giannotti, durante questo week-end è andata in scena la mostra del ”sapere, dei sapori e del saper fare” italiano. Kaleidoscopio Italia non è stato pertanto solo un momento di autoreferenzialità per aziende e addetti ai lavori ma una vetrina aperta al pubblico, quella che il direttore dell’Agenzia ICE di Budapest, Enrico Barbieri, ha definito una vera e propria festa. Ed in effetti è stata una festa a cui hanno preso parte in gran numero le aziende italiane stanziate in Ungheria, piccole e grandi, operanti in tutti i settori dalla gastronomia alle banche, dalla moda all’energia. Intimissimi, Eni, De Longhi, Ferrari, Unicredit, solo per fare alcuni nomi cui c’è da aggiungere tutta una serie di piccole ma solide imprese operanti nella componentistica, nelle forniture e nelle lavorazioni agroalimentari. Il connubio tra il business e la bellezza italiana, parafrasando l’intervento di Fabrizio Centrone, neo-eletto presidente della Camera di Commercio italiana in Ungheria, è rispettato in pieno nelle sale e nei corridoi del maestoso palazzo di Via Bródy Sándor, già sede provvisoria del parlamento ungherese tra il 1865 ed il 1902 e che figura anche sulle banconote da 20.000 fiorini.
C'é anche la Fiat all'interno dell'Istituto
 
Imprescindibile deus-ex-machina dell’evento lo staff di ITLGroup, realtà con esperienza ventennale in territorio magiaro operante nel campo della consulenza e della vendita di servizi alle imprese. Fiore all’occhiello del gruppo il portale di informazione economica in lingua italiana, economia.hu, strumento utilissimo per una maggiore integrazione dei nostri connazionali nel tessuto economico ungherese a cui contribuisce anche un’altro servizio costantemente aggiornato dal team di ITL: il censimento di tutte le aziende italiane in Ungheria sotto la specie di un database che le cataloga per area geografica, settore di attività, fatturato e numero di dipendenti (per una sua consultazione clicca qui). Come ci ha ricordato ”a microfoni spenti” l’amministratore unico di ITLGroup, Alessandro Farina, la società che dirige si muove nelle retrovie, svolge una funzione di raccordo tra i vari attori economici e gli abituali organi diplomatici e istituzionali di rappresentanza dando forma organica alla presenza italiana in Ungheria. Farina va anche oltre la semplice cura delle relazioni commerciali tra Italia e Ungheria. Sposare la causa dell’internazionalizzazione significa piuttosto non solo inserire le imprese in un altro paese seguendo una logica bilaterale ma renderle parte del mercato globale in un’ottica di integrazione orizzontale.

Il vademecum sulle opere italiane al Museo delle belle arti di Budapest

 
Detto delle professionalità e delle istituzioni impegnate nell’organizzazione di questa fiera del Made in Italy, Kaleidoscopio ha dato mostra di ció che di meglio c’è dell’italianità. La proiezione dei film di Alberto Sordi, Totó, e Alessandro Siani hanno divertito la platea italo-ungherese con una comicità senza tempo. I palati hanno assaporato le specialità del Bel Paese dalla mortadella alla pasta, nell’aroma del nostro caffè che ha invaso i corridoi e le sale dell’esposizione. Non è stata trascurata la cultura e la presentazione del libello ”Percorsi Italiani”, che raccoglie un vademecum di tutte le opere italiane custodite nel Museo delle belle arti di Budapest, dimostra come i Giorgione, i Raffaello e i Tiziano sono arrivati in Ungheria prima di molti altri. La premiazione poi degli alunni ungheresi a conclusione del concorso Ciao!Parliamo italiano? è stato il riconoscimento formale del successo dell’insegnamento della lingua italiana in più di 600 istituti scolastici sparsi nel paese. Niente è mancato insomma in quesa tre giorni, nemmeno il presepio, adattato originalmente nei bastioni dei pescatori, nè tantomeno la messa domenicale, a ricordarci che siamo anche un popolo di bravi cattolici e la domenica…..si va a messa! Kaleidoscopio è finito…..andate in Vespa!
 

Per la galleria fotografica di Kaleidoscopio Italia 2013 allestita personalmente sul posto da L’Ansa del Danubio sará disponibile sul profilo facebook del blog. Qui la galleria fotografica. 
 
 

lunedì 7 ottobre 2013

IL GOVERNO PER DECRETI: UN SALTO NEL PASSATO O UNA PROSPETTIVA FUTURA? UNA RIFLESSIONE SULLE RECENTI PROPOSTE DEL PRESIDENTE DEL PARLAMENTO UNGHERESE

László Kövér sulla copertina di Heti Válasz
Con l'apertura della sessione autunnale del parlamento ungherese, arriva anche la prima polemica scatenata da una serie di interviste rilasciate dal presidente dell'Assemblea Nazionale László Kövér prima all'emittente radiofonica Infórádio e poi al settimanale Heti Válasz (vedi foto a destra). Il parlamento, è la sostanza delle parole di Kövér, deve lasciare più spazio al governo nell'azione normativa. Ma il governo per decreti (rendeleti kormányzás) concetto osteggiato subito da più parti è davvero un atto di prevaricazione dell'esecutivo sulla titolarità della funzione legislativa dell'assemblea parlamentare? Quanto c'è di fondato nelle critiche all'intervento di una delle figure di punta del partito di maggioranza del FIDESZ? E' davvero percorribile una proposta simile? E cosa dice la dottrina alla luce di una rapida comparazione con altri modelli? Scopriamolo leggendo l'articolo completo cliccando qui

martedì 20 agosto 2013

20 AGOSTO: FESTA DELLA CHIESA, FESTA DELLO STATO. SI CELEBRA STEFANO, SANTO E RE D’UNGHERIA

Santo Stefano Re d'Ungheria
“Se vuoi che la tua corona reale sia circondata dal rispetto proteggi la tua fede cattolica e apostolica con una cautela e accortezza tali da essere di esempio a  tutti quelli che Dio ti ha sottoposto come sudditi e in modo che ogni uomo di Chiesa possa giustamente definirti vero seguace della professione di fede cristiana…”

…ha azt akarod, hogy királyi koronádat megbecsülés övezze, olyan elővigyázatossággal és körültekintéssel óvd katolikus és apostoli hitedet, hogy példaképül szolgálj mindazoknak, akiket Isten alattvalóiddá tett, és minden egyházi ember méltán nevezhessen téged a keresztény hitvallás igaz követőjének....

Con queste parole Santo Stefano (Szent István) primo re d’Ungheria istruisce il figlio, il principe Emerico (Imre), in una delle disposizioni di morale che insieme a due codici di leggi costituiscono l’unica fonte scritta risalente al sovrano magiaro di cui abbiamo diretta prova. Da queste poche righe si evince il profondo legame che Stefano instaura tra il suo regno e la cristianità come credo religioso. L’opera di Stefano si sviluppa tutta intorno all’anno mille anno in cui peraltro, secondo alcune fonti, si colloca la sua incoronazione grazie anche agli interventi degli imperatori Ottone II e Ottone III presso il Papa Silvestro II. Sono gli anni del Sacro Romano Impero ed è anche grazie a questa influenza che il principato magiaro guidato da Géza, padre di Stefano, sceglie di cristianizzare la nazione magiara che ormai da poco più di un secolo si è stanziata definitivamente nel bacino territoriale dei Carpazi. La scelta cristiana “occidentale” che con Géza sembra dettata più da ragioni di opportunismo politico, specie in un periodo in cui vige un aspro confronto con il mondo bizantino orientale, è confermata convintamente da Stefano che stabilendo il Regno d’Ungheria (Magyar Királyság) è a pieno titolo il fondatore (államalapító) dello stato ungherese. Re Stefano è artefice di un sistema di amministrazione completamente innovativo per l’epoca. La geografia politica dello stato viene ridisegnata e nasce l’esercito del re. Anche il sistema fiscale è nuovo con l’introduzione di imposte sulla rendita che entrano a far parte del tesoro privato del sovrano. Con la registrazione delle leggi e l’inserimento in diplomi delle ordinanze, il diritto del re sostituisce le consuetudini popolari (népjog) e si assiste allo sviluppo delle forme scritte, probabilmente tra le prime in assoluto dell’epoca. La politica estera del primo re d’Ungheria è pacifica e segue le regole del buon vicinato essendo rivolta tutta la sua attenzione principalmente al consolidamento del nuovo stato ungherese nel bacino dei Carpazi. Parallelamente alla riorganizzazione amministrativa Re Stefano si occupa personalmente della definizione della struttura ecclesiastica sul territorio in vescovati e parrocchie seguendo così il modello occidentale. L’azione del monarca è permeata profondamente dal suo credo religioso anche negli aspetti che riguardano la sfera pubblica della vita dei suoi sudditi che deve essere informata dai dettami del cristianesimo. Né è un esempio la tredicesima disposizione del primo codice di re Stefano che in sostanza equipara il peccato al reato.

“Se qualcuno è negligente nell’osservanza del cristianesimo e si dimostra insuperbito nella stupidità della negligenza, il vescovo giudichi ciò ha commesso contro il cristianesimo secondo le istruzioni dei canoni sulla base dell’entità del peccato. Se invece è refrattario e non accetta in modo equo la pena elargita, venga colpito dalla stessa sentenza fino alla settima volta. Se alla fine dovesse mostrarsi ancora refrattario e resistente venga consegnato alla magistratura del re, ossia al difensore della cristianità.”

Ha valaki a kereszténység megtartásában hanyag és hanyagság ostobaságától felfuvalkodott, azt, amit a kereszténység ellen elkövetett, a püspök a vétek minőségétől függően a kánonok tanításai szerint ítélje meg. Ha pedig ellenszegülőként a rá rott büntetést méltányosan nem fogadja el, ismét ugyanazzal az ítélettel sújtsák, egészen a  hetedik alkalomig. Végül ha mindezek után is ellenszegülő és ellenálló lenne, adják át a királyi bíróságnak, vagyis a kereszténység védelmezőjének.

Questo servizio reso al cattolicesimo come suo difensore e divulgatore vale a Stefano, primo re d’Ungheria, un altro primato, quello di essere il primo santo ungherese proclamato tale a soli 45 anni dalla morte per volontà di un altro sovrano magiaro cattolico, Ladislao I (I László) e con la benedizione di Papa Gregorio VII. Il culto di Santo Stefano assume dunque una dimensione universale e millenaria. La data di canonizzazione, il 20 agosto 1083, diviene il riferimento per le celebrazioni in suo onore.
Il pane nuovo frutto delle mietiture dei mesi estivi

L’importanza che il 20 agosto riveste nella vita di ogni ungherese è costante fino ai giorni nostri e non passa inosservata nel secolo scorso nemmeno agli esponenti del Partito Comunista che utilizzano questa stessa data probabilmente per affrancarsi dalle accuse a loro carico e provenienti da più parti di tradimento della cultura ungherese a favore della vocazione internazionalista.  Nell’immediato secondo dopoguerra spostano infatti un’altra significativa ricorrenza della tradizione popolare magiara, la festa del pane nuovo (új kenyér), fino ad allora rievocata a fine giugno nel giorno degli apostoli Paolo e Pietro,  così da farla coincidere proprio con le celebrazioni in onore di Santo Stefano. Inutile dire che per il Partito Comunista, per cui ogni forma di culto era osteggiata, la figura di Stefano è riconosciuta solo (e comunque) per la sua centralità storica nella vita della nazione e dello stato ungherese. Ne è la prova il divieto della processione della reliquia della mano destra del re e santo vigente durante tutti gli anni del regime. Di fronte alla rilevanza di questa festività il sistema comunista non può che provare a farne emergere aspetti più “accettabili” guardandosi bene dal disconoscerla in toto. In questa scia si inserisce un ulteriore contributo alla “secolarizzazione” del ricordo di Re Stefano, vale a dire l’entrata in vigore proprio il giorno 20 di agosto del 1949 della nuova costituzione ungherese di matrice sovietica. Da allora il 20 agosto è pertanto ufficialmente, fino al 1989, anche festa della Costituzione della Repubblica Popolare d’Ungheria.  In conclusione, che sia  ricordato come re, come santo o con entrambi i titoli Stefano incarna un’idea di stato e di nazione ed è il riferimento imprescindibile dell’ungheresità.
                                                            
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Come ogni anno i festeggiamenti per Santo Stefano d’Ungheria si dividono in un ricco programma di eventi civili e religiosi che coinvolgono l’intero paese ma che  hanno comunque come fulcro Budapest. I momenti principali della giornata sono il giuramento militare dei cadetti dell’Università Nazionale del Pubblico Servizio in Piazza degli Eroi (in mattinata), la processione della Santa Destra (Szent Jobb) che muove di pomeriggio dalla Basilica di Santo Stefano e lo spettacolo pirotecnico che in serata chiude gli appuntamenti con un lungo programma sincronizzato di fuochi e musica nello scenario panoramico del Danubio.

Per consultare la programmazione ufficiale sul sito del Governo leggi qui in ungherese e in inglese



mercoledì 24 luglio 2013

CONFERENZA ANNUALE DEGLI AMBASCIATORI. ORBÁN PARLA DI UNIONE EUROPEA: DIFENDIAMO IL NOSTRO SPAZIO DI MANOVRA

Il premier Orbán alla Conferenza annuale degli ambasciatori
La scorsa settimana si è tenuta a Budapest la Conferenza annuale degli ambasciatori che ha richiamato nella capitale ungherese 107 capi-missione. I diplomatici hanno assistito a più di quaranta relazioni e tra i vari relatori hanno figurato tutti i ministri del governo in carica. Ogni anno è invitato anche un relatore esterno, una sorta di ospite d’onore che stavolta è stato il ministro degli esteri indiano Szalman Kursid a testimonianza del buon funzionamento della politica di “apertura orientale” (keleti nyitás), al momento tra i cardini della diplomazia magiara e non a caso tema portante della scorsa conferenza. A presentare la tematica di questa sessione di lavori è stato il primo ministro Viktor Orbán che nel primo dei due unici discorsi aperti al pubblico (il secondo è stato quello del ministro degli esteri János Mártonyi) ha parlato estesamente dei rapporti tra Ungheria e Unione Europea sotto il profilo della politica economica.
Orbán ha analizzato in modo molto chiaro, lineare e pragmatico la posizione e l’attività dell’UE nella situazione di crisi attuale e altrettanto concreto è stato nell’esporre gli interessi e il ruolo dell’Ungheria all’interno dell’Unione in questa fase, fino quasi a definire in linea generale il suo pensiero sul processo stesso di integrazione europea. Nessun tono retorico per una relazione - di cui proponiamo un’esauriente panoramica - che a tratti può essere considerata persino europeista e le cui premesse sono già tutte, come fa notare con una punta di ironia il quotidiano Népszabadság, nell’allestimento del podio che insieme ai tricolori magiari presenta inusuali bandiere dell’UE. L’unica nota di sentito orgoglio e soddisfazione prettamente nazionale è nell’introduzione dedicata ad una breve elencazione dei risultati conseguiti dal governo che negli ultimi tre anni ha invertito quella che era una tendenza negativa dell’economia del paese: rapporto deficit-Pil sotto la soglia del 3%, debito pubblico ridotto, indipendenza da aiuti finanziari esteri, alleggerimento del carico di chi ha contratto debiti con l’estero, occupati in aumento,  crescita dei salari reali, abbattimento delle tariffe, PIL in risalita. Il raggiungimento di questi obiettivi non deve però far pensare - ha ricordato Orbán -  all’inesistenza di sforzi futuri per mantenere questo quadro idilliaco ma è comunque una base sicura per evitare sforzi “straordinari”.

Al miele della politica interna segue l’amaro realismo della politica estera e la questione da chiarire subito ma per cui non c’è ancora una risposta unanime è la durata di una crisi economica partita dagli Stati Uniti e che è già al suo quinto anno di vita:  “Crisi transitoria dunque o i primi anni di un periodo storico più lungo, di riassetto del potere mondiale tale però da mantenere l’Europa in una condizione di declino?”, questo è il vero dilemma. L’unica cosa evidente in questo contesto è la creazione di una nuova divisione in seno al vecchio continente tra ”paesi membri e non membri dell’eurozona”. Affrontare la crisi con una propria valuta nazionale è oggettivamente diverso rispetto al farlo con una moneta comune e condivisa. Si assiste, sostiene Orbán,  ad una progressiva “istituzionalizzazione dell’eurozona” i cui paesi agiscono al limite di quanto previsto dai Trattati rispondendo alle attuali difficoltà con “proprie trattative, proprie procedure, proprie istituzioni”. L’Ungheria non può che prendere atto di questa realtà che tutto sommato sperimenta costantemente già a partire dalla data di adesione, il 2004. E’ da allora secondo il primo ministro che la diplomazia magiara cerca di far fronte all’interno delle istituzioni europee a quella che è una situazione di disagio per il paese ossia il sentirsi finalmente parte di un progetto, “l’essersi  avvicinati da una periferia al centro ma accorgersi allo stesso tempo che quel centro si sta allontanando di nuovo e che si sta occupando una nuova posizione periferica”. Il realismo di Orbán sta nel riconoscere che i paesi dell’area-euro non hanno scelte alternative ad un’integrazione più stretta per non perdere il proprio denaro e per buttare giù le basi di una UE in futuro competitiva. 
Ne derivano due posizioni che l’Ungheria può assumere in questo frangente, la prima passiva la seconda attiva. In primis c’è da sperare nel successo di questi sforzi compiuti dall’eurozona, area con cui Budapest è strettamente interdipendente se solo si considerano i legami di import-export. Per questo “non si può far altro che pregare” -  scherza il leader del FIDESZ - “e non ostacolare tali dinamiche”. Un insuccesso equivarrebbe a serie ripercussioni sulla stessa economia magiara. A tal proposito il capo del governo ricorda il ruolo determinante dell’Europa centrale (közép Európa) nel trascinare la crescita economica dell’UE che altrimenti conoscerebbe la recessione già da diversi anni e aggiunge anche una sua convinzione abbastanza datata secondo la quale l’Unione avrebbe dovuto consentire l’integrazione dell’est Europa già nel biennio 1995/1996. 
Per ribadire quello che invece l’Ungheria può e deve fare e che le è consentito legittimamente da questo nuovo dualismo creatosi de facto, Orbán usa tre verbi: “kivívni, fenntartani, megvédeni” ossia conquistare, mantenere e difendere uno spazio di manovra nelle scelte di politica economica nazionale. E’ una lotta che ha nel pensiero burocratico di Bruxelles il suo avversario. “L’Europa - si afferma - non può imporre soluzioni e progetti unitari di politica economica a paesi che sono al di fuori dell’eurozona”. Le sfide di questi paesi sono diverse e non hanno le stesse necessità, obblighi e condizionamenti provenienti dall’appartenenza ad una moneta comune. Una mentalità burocratica, spiega Orbán, è sempre portata a ricercare e ad ottenere anche forzatamente il consenso intorno ad un’idea che crede possa andare bene per tutti, ma la “teoria è diversa dalla realtà”.  La tutela di questo libero spazio di manovra dovrà essere dunque un elemento imprescindibile della politica estera ungherese dei prossimi anni. 

Il capo del governo passa poi ad analizzare la questione che forse più di ogni altra costituisce, anche da un punto di vista profondamente teorico, il cuore del contrasto tra l’Ungheria e “gli occidentali”:  la disputa tra selettività e normatività. Si parte da un assunto, “in tempo di crisi gli strumenti normativi di politica economica non funzionano” laddove normalmente tutti anelano a questo tipo di regolamentazione.  All’estero la si definisce “prevedibilità” vale a dire, continua  Orbán, ”un’economia è prevedibile quando ad essa si applicano regole generali valide per tutti”.  Nei fatti però in una contingenza di crisi ”la normatività non può trovare spazio”. ”Non si è mai visto - sostiene il premier - che in tempo di crisi si riuscisse ad evitare provvedimenti mirati e selettivi”. E’ dunque legittima la selettività nell’adozione di provvedimenti di politica economica e in questo gli esempi migliori vengono proprio dall’Ungheria.  Agli ambasciatori  viene ricordata l’applicazione del criterio selettivo da parte dell’esecutivo in tema di politiche di difesa del lavoro. Così è stato per la riduzione delle spese contributive dei datori di lavoro nel caso di particolari categorie: giovani in cerca di prima occupazione, lavoratrici reinserite dopo la maternità, lavoratori prossimi al pensionamento e inoccupati di lungo termine reintegrati. Stessi provvedimenti mirati anche nel campo della tassazione delle aziende dove sono stati interessati in maniera specifica il settore bancario, del commercio e delle telecomunicazioni. Orbán riconosce come alla luce di questo, specie nell’ultimo caso, sia comprensibile la reazione dei grandi gruppi stranieri presenti in Ungheria che si sono visti discriminati solo perché operanti in un settore che il governo ha ritenuto necessario “colpire”.  Per il paese la selettività, possibile solo grazie al sostegno garantito da una maggioranza parlamentare dei due terzi (kétharmados), è stata una scelta obbligata per risollevarsi ed invertire i trend economici negativi. In un quadro in cui le misure di politica economica mirate sono sottoposte a continui attacchi i diplomatici sono chiamati a difenderle sia nel merito sia nel principio stesso da cui scaturiscono.  Tuttavia il primo ministro, pur difendendone l’irrinunciabilità e l’irreversibilità, si astiene dal considerare la selettività come un paradigma certo da proporre come tale agli altri stati almeno fino a quando i risultati di successo siano definibili di lungo termine. 

Nell’ultima parte dell’ intervento si pone l’accento su di un altro ordine di questioni dibattute tra l’Ungheria e l’Unione che non è del tutto indipendente dalla issue selettività-normatività. In questa prospettiva si usa molto nei media e tra gli addetti ai lavori il termine ”guerra di indipendenza” (szabadságharc) che Orbán definisce non del tutto inappropriato ma che corregge con quella che per lui è la vera priorità ossia preservare gli equilibri tra la comunità europea e i singoli stati. Si assicura che l’Ungheria non ha nessuna intenzione di rendersi indipendente da un progetto comune quale è l’Unione. Si tratta piuttosto di mantenere lo stesso equilibrio tra stati nazionali e istituzioni europee sulla cui base sono stati scritti i Trattati in vigore e si è creato il consenso all’adesione dei nuovi membri.  Ora è in corso, a detta del primo ministro magiaro, una rottura di questo equilibrio attraverso una prassi che, al limite della conformità con i Trattati, attua progressivamente e in modo furtivo (lopakodó) una politica federalista. Ciò avviene con l’approvazione di progetti volti a disciplinare sfere di competenze originariamente affidate agli stati nazionali e tali da alterare gli equilibri predefiniti e accettati dall’Ungheria nel 2004. Orbán non accetta che questo trasferimento di competenze avvenga in maniera latente e poco chiara anche perché egli ribadisce di essere pronto a qualsiasi confronto che abbia come oggetto la ridefinizione dello status-quo ma su di un piano di parità con gli altri stati membri e sulla base di regole unanimemente riconosciute e di trattative aperte. Diversamente nessuno può esaminare, valutare e formulare raccomandazioni in ambiti di stretta pertinenza nazionale. Tantomeno è accettabile alcun tentativo furtivo di modifica dei Trattati che aprirebbe solo le porte al ”doppiopesismo dei più forti e all’impero burocratico di Bruxelles”.  
A suffragare infine l’impegno ungherese nell’ adempimento dei suoi obblighi comunitari il premier ricorda due dati: l’adattamento del diritto interno alla produzione normativa dell’UE che risulta perfettamente nella media europea e l’applicazione delle sentenze della Corte Di Giustizia per cui l’Ungheria fa tre volte meglio degli altri. Prima di chiudere Orbán sottolinea come egli non sia l’unica voce fuori dal coro. E’ in compagnia del governo olandese che, nonostante guidi un paese membro fondatore, sta lavorando per presentare a livello comunitario  un rapporto sulla sussidiarietà (già sottoposto al proprio parlamento) basato sul principio “Europa dove necessario, nazionale dove possibile” nel quale si esprime l’esigenza di lasciare agli stati determinate materie. L’invito finale fatto ai ”suoi” ambasciatori è di adoperarsi per allargare le possibilità economiche del paese e di difendere la sovranità nazionale in  un contesto internazionale profondamente conflittuale e in cui l’Ungheria ha necessità di apparire ”forte, orgogliosa e sicura di sè”.

La relazione è stata seguita da un momento più interattivo in cui il primo ministro ha risposto alle domande degli ambasciatori. Viktor Orbán ha potuto così toccare anche altri temi di politica estera come i rapporti con la Russia. Riguardo a questo egli ha spiegato che l’UE non ha alternative ad una sempre più intensa cooperazione con Mosca specie se desidera tenere il passo in tema di competitività economica. Ha anche fatto presente che il vero problema con la Russia non è tanto la democrazia quanto la necessità di tenere unito questo immenso paese. In più anche l’Europa centrale è chiamata ad affrontare con maturità ed a valutare nel lungo termine i benefici strategici di una simile relazione anche se questo può suonare strano guardando la storia del secolo scorso. Con la domanda del capo-missione della sede parigina si torna a parlare di Unione ed in particolare di adesione ungherese alla moneta comune. Orbán chiarisce un concetto da lui più volte espresso che non lascia spazio ad ulteriori considerazioni: l’Ungheria adotterà l’euro quando il reddito pro-capite magiaro costituirà almeno il 90% del reddito pro-capite dei paesi dell’eurozona, cosa che sicuramente non capiterà, fa intendere il premier, nel prossimo decennio. In platea c’è anche l’ex ministro degli esteri e politico socialista di lunga data László Kovács che pone la questione dei rapporti con gli USA che Orbán definisce eccellenti nei settori più delicati come le relazioni economiche e la cooperazione in campo militare e di servizi segreti. Tuttavia tra Ungheria e USA intercorrono forti divergenze ideologiche come nelle politiche sociali e sulla famiglia. Spesso capita poi che da oltre-oceano vengano opinioni sulle norme ungheresi. “L’America - ha ribadito Orbán - deve accettare che i deputati eletti dal popolo ungherese decidono liberamente” e non necessariamente in modo conforme a come la pensa Washington.
Il ministro degli esteri János Mártonyi

Il ministro degli esteri János Mártonyi nel suo intervento ha posto principalmente l’accento sulla politica regionale dell’Ungheria pur non tralasciando i rapporti con Bruxelles che, eccezion fatta per l’approvazione del documento politico che porta anche il nome di “rapporto Tavares”, sembrano avviati alla normalizzazione. Mártonyi ricorda ai diplomatici come negli ultimi tre anni siano migliorate le relazioni con i paesi confinanti. Questo grazie al costante impegno di costruzione della fiducia e reciproca, un obiettivo da cui non si può prescindere e i cui risultati si vedono ad esempio nei rapporti con la Serbia. Il paese balcanico ha di recente fatto passi importanti verso il riconoscimento dei diritti collettivi delle minoranze nazionali e la visita di fine giugno scorso del capo dello stato ungherese János Áder a Belgrado ha sugellato questo nuovo corso. ”Il governo non ha mai voluto passare sotto silenzio le gravi questioni aperte – ha detto Mártonyi – ma il più delle volte la soluzione migliore sta nel non alzare i toni”.  Più proficua è la collaborazione con paesi limitrofi e dell’Europa centrale più favorevoli saranno anche le condizioni per il miglioramento della situazione degli ungheresi che vivono oltre-confine.   Il responsabile della politica estera dell’esecutivo ha infine richiamato la continuità che i governi di centro-destra hanno dimostrato fino ad oggi nella politica delle nazionalità a partire da József Antall, che amava definirsi in cuor suo ”primo ministro di 15 milioni di ungheresi”. Stessa direzione per il primo governo Orbán, autore della contestata legge sullo ”status” (státustörvény), e per l’attuale gabinetto che con un consenso nazionale pressoché unanime ha reso più semplici le procedure per l’acquisizione della cittadinanza  ungherese e in quest’ultimo caso, Slovacchia a parte, sembra che la decisione non abbia suscitato particolari tensioni. Cenno inevitabile poi al fatto che all’Ungheria spetti al momento la guida contemporanea del Gruppo di Visegrád e dell’ Iniziativa Centro Europea.

fonti: kormany.hu, hirado.hu, nol.hu