martedì 14 gennaio 2014

BOMBA O NON BOMBA. COME SI ARRIVA A LEHEL UTCA…E COME FERMARSI QUI

La filiale della CIB Bank di Lehel utca (foto mti)
L’esplosione che la notte scorsa ha sventrato una filiale della CIB (Gruppo Intesa San Paolo) nel cuore del XIII distretto di Budapest è un fatto grave. Lo diciamo subito in maniera chiara lasciando ciononastante tutto il tempo necessario di cui le autorità inquirenti hanno bisogno per accertare le responsabilità. Lo diciamo al termine di una giornata in cui si sono susseguite le notizie più disparate. Dal dilettantismo nella fabbricazione artigianale dell’ordigno delle prime ore siamo così passati  alla dichiarazione serale dell’esperto di sicurezza Georg Spöttle secondo il quale “si è trattato di un atto terroristico vero e proprio” compiuto da chi aveva “una grande conoscenza“ degli strumenti a disposizione.  Con i dati e le informazioni trapelate sinora sappiamo che sicuramente l’attentato è stato fatto per colpire cose e non persone. Al momento non ci sono rivendicazioni. Il gesto potrebbe essere anche isolato se non addirittura un fallito tentativo di rapina. Insomma è molto presto per fare conclusioni, ma siamo tuttavia in tempo per qualche considerazione.

Che si tratti o meno di un episodio singolo privo di qualunque nesso con una strategia ben più organizzata poco importa in questa fase. Il fatto che qualcuno abbia definito l’azione eroica non è solo perché l’attentatore prima dello scoppio avrebbe gentilmente fatto spostare dalla zona dei poveri homeless preservandone l’incolumità. Basta leggere qualche intervento facebook del movimento ”La mia casa non è in vendita” (Nem adom a házamat) per accorgersi che i sostenitori della bomba di Lehel utca non sono poi così pochi. Dai commenti poi sembrerebbe che sportelli e bancomat di altre banche siano segnati come obiettivi imminenti. Il citato movimento non nasce ieri e non è l’unico nel suo genere. 
Nella società ungherese degli ultimi anni alberga un generalizzato sentimento ostile agli istituti di credito. Pertanto l’episodio della filiale della CIB non è il classico fulmine a ciel sereno. Alla base di tutto c’è in buona sostanza l’annoso caso devizahitel  ossia quello dei debiti contratti in valuta estera - prevalentemente franco svizzero - da molti ungheresi  per l’acquisto della casa. Quello che appariva come un affare nei primi anni duemila, visti i tassi d’interesse bassi rispetto al credito offerto in valuta nazionale, si è rivelato agli occhi dei contraenti una truffa. 
Il sito web di Árpád Kásler fondatore di "La patria non è in vendita"
La crisi finanziaria del 2008 ed il quasi contestuale crollo del valore del fiorino rispetto al franco hanno infatti reso le rate impossibili. Da allora la questione è in continua evoluzione e vede in scena una molteplicità di attori: oltre alle banche ed agli “sfortunati” debitori (devizahitelesek), la magistratura ordinaria, la Corte Suprema e (a breve) la Corte di giustizia UE.  Delle 2500 cause (il dato è di novembre) intentate contro le banche, tra cui figurano anche le italiane Unicredit e CIB-Intesa-San Paolo, 60 sono quelle vinte dagli istituti di credito a fronte delle 6 perse a favore dei debitori. Quanto basta per capire il grado di malcontento che viene cavalcato da personaggi come Árpád Kásler che, rifiutandosi di pagare le rate del mutuo, per primo ha dato forma organizzata alla protesta fondando il movimento ”La patria non è in vendita” (A haza nem eladó) e che alle prossime elezioni correrà come partito politico.

Al sincero disagio e disappunto del consumatore, vittima c’è da dire anche di una imprevedibile contingenza, si sposa un altro sentimento molto comune specie nell’attuale establishment e che risente spesso  del mito dell’Ungheria “perenne colonia” defraudata dal capitale straniero.  Non è più vecchia di un mese la dichiarazione del presidente della Banca nazionale ungherese (MNB)  György Matolcsy che ha annunciato nella prima metá del 2014 l’uscita dal paese di quattro grandi gruppi bancari opportunamente rimpiazzati da istituti di piccola e media grandezza in mano magiara pronti ad acquisirne quote ed asset. Quasi a parafrasare le parole di Matolcsy un successivo editoriale del quotidiano filo-governativo Magyar Nemzet sottolinea l’importanza della “provenienza del capitale” e sostiene lo sforzo congiunto di esecutivo e MNB “nel crescere radicalmente la quota di proprietà magiara” nell’economia nazionale. Se poi a questo aggiungiamo l’enfasi posta sulla chiusura nel luglio scorso dell’ufficio (temporaneo) di Budapest del Fondo Monetario Internazionale, in seguito al pagamento dell’ultima tranche del debito dovuto all’istituto di Washington, sembra quasi che il quadro della lotta alle plutocrazie occidentali sia ultimato.

Perché dunque non si ripetano episodi di violenta intolleranza che potrebbero disgraziatamente avere anche effetti più gravi occorre evitare atteggiamenti inquisitori da caccia alle streghe. Il sistema bancario non è un cancro da combattere ed eliminare ma è elemento imprescindibile per garantire la sopravvivenza del sistema imprenditoriale di un paese. Ristabilire poi la fiducia dei malcapitati debitori in valuta estera è una priorità che il governo ha già fatto discretamente propria attraverso il varo di misure di appianamento dei debiti contratti dai singoli. Infine la legittima e condivisibile aspirazione del premier Viktor Orbán di dare sempre più peso alla specificità magiara all’interno di un’interdipendenza globale, di cui si subiscono anche pesanti svantaggi specie nella qualità della vita e nel reddito pro-capite, non deve mai dare l’impressione di sfociare in un gratuito quanto inutile sciovinismo. Per ristabilire un clima meno teso c’è bisogno del contributo di tutti. L’ormai imminente campagna elettorale vuole responsabilità non ordigni da disinnescare.




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